Repubblica 16.4.16
Dall’invidia di Faulkner alla palla da baseball che fulminò Murakami
L’attimo esatto in cui si diventa scrittori
di Nicola Lagioia
Haruki
Murakami scoprì di voler fare lo scrittore in un radioso pomeriggio di
aprile del 1978, guardando una partita di baseball al Jingu Stadium di
Tokyo. Prima di allora non aveva mai scritto un rigo. Lo racconta lui
stesso nell’introduzione a “Wind/Pinball”, la riedizione dei suoi
romanzi giovanili pubblicati in inglese per la prima volta da Knopf
l’estate scorsa. Il futuro autore di “Norwegian Wood” aveva compiuto il
suo percorso di formazione in modo non canonico: sposandosi prima di
cominciare a lavorare, e laureandosi (“in qualche modo”) dopo essersi
inventato un mestiere. Con il coraggio della giovinezza, Murakami e sua
moglie avevano aperto nella periferia di Tokyo il jazz club dei loro
sogni, un posto dove fosse possibile
ascoltare musica e incontrare
gente interessante. In pratica si trattò di sfacchinare come schiavi,
avendo per compagni di viaggio (insieme al be-bop) l’incubo dei debiti
che non finivano mai. A un certo punto il locale ingranò («eravamo
convinti che la felicità portasse fortuna»). Fu in quel periodo che
Murakami assistette alla partita di baseball dove avrebbe incontrato il
suo destino. Yakult Swallows contro Hiroshima Carp. Lui era un tifoso
degli Swallows, e quando un battitore della squadra del cuore colpì con
tanta forza la pallina che il crak della mazza risuonò tra gli spalti,
Murakami ebbe l’illuminazione. «Mi sembrò che qualcosa arrivasse
svolazzando giù dal cielo e io l’accogliessi delicatamente tra le mani.
In quel momento, non so perché, pensai: credo che potrei scrivere un
romanzo ».
Un’epifania bella e buona. Ma come si decide di diventare scrittori, ammesso che una decisione del genere possa essere presa?
Non
credo che la letteratura segua i percorsi delle religioni rivelate, e
sarei pronto a scommettere che qualcosa in Murakami avesse già deciso di
voltare pagina e aspettasse l’occasione giusta per informare
l’interessato.
Un episodio simile accadde al García Márquez degli
esordi. Poco più che ventenne, Gabo non riusciva a trovare la sua cifra.
Scriveva improbabili racconti kafkiani che a lui per primo suonavano
fasulli. Poi successero due cose: García Márquez lesse William Faulkner e
sua madre lo portò ad Aracataca, il paesino in cui Gabriel era nato e
che sarebbe diventato la Macondo della trasfigurazione letteraria. La
situazione si sbloccò: «fu come se quello che vedevo fosse già stato
scritto, dovevo sedermi e copiare ciò che era lì. Solo una tecnica come
quella di Faulkner mi avrebbe consentito di farlo: l’atmosfera, la
decadenza, il calore del piccolo villaggio erano simili a ciò che avevo
provato leggendo i suoi libri».
Ecco che vediamo in modo un po’
più chiaro il funzionamento di certi processi creativi: scopri la voce
di un maestro che ti aiuta a riconoscere la tua, ma a patto di
trapiantare ogni cosa in un mondo che appartiene a te e non a lui.
Anche
gli incontri con i maestri in carne e ossa possono servire. William
Faulkner iniziò a scrivere guardando vivere Sherwood Anderson, all’epoca
già autore affermato. I due erano compagni di bevute e Faulkner
osservandolo pensò: «bel mestiere scrivere: la mattina lavori, il
pomeriggio correggi un po’ e la sera sei libero di ubriacarti con chi
vuoi». Così Faulkner comunicò all’amico che anche lui avrebbe scritto un
libro. Da quel momento Sherwood Anderson sparì dalla circolazione. Un
mese dopo sua moglie bussò alla porta dei Faulkner: «mio marito non ne
può più di starsene tappato in casa per paura di incontrarti. Vuole fare
un patto con te: se non sarà costretto a leggere il tuo manoscritto,
dirà al suo editore di pubblicarlo ». Questo aneddoto, che Faulkner
condiva con infinite varianti, nasconde un motore ben più oscuro della
creazione letteraria: la competizione, la necessità di un maestro da
mangiare in salsa piccante. Non è forse un caso che dopo aver cominciato
a pubblicare, Faulkner scrisse una raccolta di satire intitolata
Sherwood Anderson and Other Famous Creoles che costò la rottura
dell’amicizia.
Non del tutto diverso dovette essere il sentimento
di Tomasi di Lampedusa quando accompagnò il cugino Lucio Piccolo (poeta
appena scoperto da Montale) al convegno di San Pellegrino, dove il gotha
della letteratura italiana si riunì tra nel luglio del 1954. «Fummo
giudicati due mezzi contadini venuti da chissà dove», dirà Piccolo. E
Tomasi di Lampedusa, includendo nel discorso il pur amato cugino: «mi
sentii pungere nel vivo, avevo la certezza di non essere più fesso di
loro... così sono tornato e mi sono messo a scrivere un romanzo ».
Per
Mary Shelley la situazione si sbloccò sul lago di Ginevra, dove nel
1816 arrivò con P.B. Shelley (non ancora suo marito) alla corte di Lord
Byron (amante della sorellastra di lei) e del suo medico personale John
Polidori. Per ingannare l’estate piovosa, Byron propose agli amici di
scrivere una storia di fantasmi. In pochi giorni Mary diede alla luce
Frankenstein.
Anche qui il gioco di società è il pretesto per una
partita più complessa. È probabile che attraverso i personaggi del
romanzo, Mary Shelley avesse esorcizzato i legami (pericolosamente
ambigui) che univano i componenti di quel circolo, i quali – salvo le
due ragazze – sarebbero morti l’uno dopo l’altro nel giro di pochi anni.
Letteratura
e vampirismo. Cosa dire di Emily e Charlotte Brontë, dee della
brughiera, che amarono il fratello scapestrato Branwell, costruendo
sull’ombroso fallimento di lui i protagonisti maschili dei loro
magnifici romanzi?
Con tutti questi aneddoti sto solo cercando di
spiegare come spesso si cominci a diventare scrittori prima di averlo
deciso. Il talento letterario, al suo nascere, è spietato come certe
piantine che farebbero di tutto per trovare luce. E poiché
l’inconsapevole scrittore in erba è impegnato di solito a fare altro, è
necessario che la vocazione gli si manifesti in modo narrativamente
comprensibile. L’amore per un fratello sfortunato. L’invidia del
successo altrui. Un marito ingombrante. Il pomeriggio di primavera in
cui una mazza da baseball colpì fragorosamente la pallina e noi vedemmo
sfrecciare la nostra giovinezza verso la direzione giusta.