Repubblica 15.4.16
Jean Birnbaum
“La sinistra non capisce l’islam”
“Abbiamo perso la speranza e non vediamo quella degli altri a cui resta solo la religione”
La provocazione di Birnbaum
Parlare solo di povertà o emarginazione è ricondurre tutto alle nostre abitudini mentali
intervista di Fabio Gambaro
Jean
Birnbaum è un giornalista francese che dirige il supplemento dei libri
di Le Monde Interessato a temi filosofici e politici, ha pubblicato
diversi saggi tra cui l’ultimo Un silence religieux ( Seuil) in cui
analizza il ruolo della religione nel jihadismo e il rapporto tra la
sinistra e il mondo islamico
PARIGI «Anche se motivato
da lodevoli intenzioni, e cioè dalla volontà di non condannare tutta una
comunità, è un errore dire che i terroristi del Califfato non hanno
nulla a che fare con l’islam». Parte da qui la riflessione di Jean
Birnbaum, studioso francese, nonché responsabile del supplemento libri
di “Le Monde”, che ha da poco mandato in libreria “Un silence religieux”
(Seuil), un saggio controcorren-te,
il cui sottotitolo recita:
“La sinistra di fronte al jihadismo”. Secondo l’autore, troppi esponenti
della sinistra tendono a rimuovere il movente religioso dei terroristi
per ingenuità e senso di colpa, ma anche perché sono figli del
razionalismo illuminista, motivo per cui non riescono a comprendere la
religione come forza autonoma capace di diventare un vero agente
politico. «Solo la verità è rivoluzionaria, si diceva una volta. Quindi
dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, senza
edulcorarla. Possiamo sempre cercare di rassicurarci, dicendoci che i
giovani jihadisti sono solo pazzi, mostri o emarginati che vengono
manipolati, ma la realtà è ben diversa. Se un terrorista, il cui
discorso si rifa di continuo al Corano, uccide in nome di Allah, non
possiamo dire che le sue azioni non hanno nulla a che fare con l’islam.
Chi siamo noi per negare il suo rapporto con la fede? Purtroppo
l’islamismo si esercita in nome dell’islam, anche se per fortuna non
tutto l’islam è islamista. I fanatici del califfato hanno origini
sociali e culturali molto diverse, l’unico elemento che li unisce è il
loro rapporto particolare con la religione. E per sconfiggerli dobbiamo
capire che la motivazioni autenticamente religiosa delle loro scelte. Il
che evidentemente non significa giustificarli».
Non riconoscere la dimensione religiosa del terrorismo islamico è un errore strategico?
«Perché
significa pugnalare alla schiena tutti coloro che nell’islam sanno
benissimo che questa relazione esiste e cercano ogni giorno di
combatterla. All’interno del mondo musulmano si sta svolgendo un’aspra
battaglia tra due diverse concezioni dell’islam. Dobbiamo prenderne atto
e sostenere tutti coloro che cercano di sottrarre la fede ai fanatici
che la deturpano, rifiutando un islam violento, intollerante e omicida.
Solo riconoscendo il pericolo si può combatterlo. Il problema è che la
violenza jihadista non rientra nelle nostre griglie concettuali e in
particolare in quelle della sinistra francese che ha completamente
rimosso la dimensione religiosa. Parlare solo di povertà o emarginazione
— dimensioni importanti — escludendo la religione, è un modo per
ricondurre il problema alle nostre abitudini mentali».
Perché la sinistra non riesce a pensare la dimensione religiosa?
«La
sinistra, in particolare quella francese, si è costruita nel solco
della tradizione cartesiana, illuminista e marxista, inseguendo il
fantasma dello sradicamento della religione, considerata solo
un’illusione, una chimera. Il famoso “oppio dei popoli”, di cui parlava
Marx e che l’emancipazione sociale avrebbe dovuto far scomparire. Fedele
a questa visione, la sinistra ha rinunciato a pensare la religione e la
sua forza. Ma la fede non è sempre il sintomo di qualcos’altro.
Seguendo le tracce di uno studioso come Christian Jambet, penso che
occorra riconoscere una sorta di materialismo spirituale, nel senso che
la fede, lungi dall’essere solo un’illusione o un riflesso, può
diventare una forza materiale».
A questo proposito lei rende
omaggio a Michel Foucault che fu uno dei primi a sottolineare la valenza
politica dell’islam, quando si recò in Iran all’inizio della
rivoluzione islamica...
«Foucault ha saputo sottolineare la forza
propria del messianesimo religioso, tanto che ha parlato di “politica
spirituale”. In Iran capì che l’energia che stava dando fuoco alle
polveri era la speranza religiosa, riconoscendo tra l’altro che in
occidente non sappiamo più cosa sia la politica infiammata dalla fede.
Non inseguiamo più “la storia sognata”, che invece in passato è stata
importante anche per noi. Proprio perché abbiamo rimosso questa
dimensione, oggi ci sembrano impossibili le motivazioni religiose del
jihad».
Perché tali motivazioni religiose danno luogo all’iperterrorismo?
«L’islamismo
è una reazione alla modernità occidentale e al tentativo di
modernizzare l’islam. Al contempo è anche una reazione alle umiliazioni
che il mondo occidentale ha inflitto al mondo musulmano. Come ha detto
Derrida, tutte le comunità sono attraversate dalla pulsione di morte,
quindi anche le comunità religiose, che, prima o poi, sono costrette a
fare i conti con i problemi identitari, il fondamentalismo e la
violenza. Nell’islam oggi però c’è qualcosa di particolare, come
sottolineano Mohammed Arkoun o Abdennour Bidar. L’islam si propone come
un’alternativa radicale al mondo contemporaneo, quindi — come ogni volta
che s’intende farla finita con un certo mondo — si pone la questione
della violenza. I jihadisti non vogliono cambiare il mondo, vogliono
distruggerlo».
Insomma secondo lei i giovani che oggi vanno in Siria a combattere sarebbero mossi da una spinta ideale che non sappiamo capire?
«Non
voglio assolutamente banalizzare il male o giustificarlo, ma non si può
pensare che questi giovani siano mossi all’inizio solo dall’odio e dal
desiderio di annientare gli altri. Quando ascoltiamo le loro
motivazioni, scopriamo che sono indignati dal mondo contemporaneo, che
non si riconoscono nella democrazia e che desiderano raggiungere i
fratelli del Califfato. Insomma, all’inizio sono motivati dal bisogno di
giustizia e di fratellanza, da una forma di speranza per noi
incomprensibile che poi si manifesta con un volto odioso e violento. Se
non capiamo questa speranza radicale, non possiamo capire quello che sta
accadendo ».
Solo che per loro la speranza non si realizza in terra ma nell’aldilà...
«I
jihadisti vogliono farla finita con la storia, con la politica e
soprattutto con la vita. Da qui il desiderio e l’elogio della morte. Ma
tutto ciò nasce da una speranza. La sola questione che conta è quella
posta a suo tempo da Kant: che cosa ci è lecito sperare? La sinistra
però non capisce più il bisogno di speranza dei giovani e non ha nulla
da proporre loro. Di conseguenza, più la speranza radicale profana —
quella della sinistra che vuole cambiare il mondo — diserta la realtà,
più si afferma una speranza radicale religiosa, che poi produce le
tragedie che abbiamo conosciuto. Oggi la sinistra sa solo proporre la
gestione del presente».