Repubblica 14.4.16
Tre idee per i migranti
di Bono
SONO
appena tornato da un viaggio in Medio Oriente e Africa Orientale che mi
ha portato in vari campi profughi, veri parcheggi di umanità.
Sono
andato in qualità di attivista e di europeo. Perché l’esodo di massa da
Paesi distrutti come la Siria non è un problema solo mediorientale e
africano, ma europeo quanto americano. Ci riguarda tutti.
Il mio
connazionale Peter Sutherland, rappresentante del segretario Onu per le
migrazioni internazionali, ha dichiarato che stiamo vivendo la più grave
crisi di migrazione forzata del dopoguerra. Nel 2010 in media circa
10.000 persone al giorno in tutto il mondo fuggivano dalla loro patria.
Sembrano già tante, senza considerare che a quattro anni di distanza il
numero si è quadruplicato. Quando gli individui si trovano costretti ad
abbandonare le loro case per sfuggire alla violenza, alla povertà e
all’instabilità portano con sé la loro disperazione altrove. E “altrove”
può essere ovunque.
Ma assieme alla disperazione alcuni hanno con
loro anche la speranza di andarsene un giorno, di trovare lavoro e una
vita migliore. Dopo essere stato in Kenya, in Giordania e in Turchia
sento di avere anch’io qualche speranza in più. Perché, per quanto sia
difficile immaginare la realtà della vita dei profughi, abbiamo la
possibilità di reinventarla, attraverso il nostro rapporto con le
persone e i Paesi ora distrutti dalla guerra o che ospitano chi dal
conflitto è fuggito.
Bisogna sbarazzarsi di certi concetti
sbagliati. Uno è che i profughi siriani siano concentrati nei campi. Non
è vero. In Giordania e in Libano, ad esempio, i profughi si trovano
soprattutto nei centri urbani.
Un’altra idea sbagliata è che la
crisi sia temporanea. Alcuni sono profughi da due generazioni. Sono
stati esiliati dalla patria solo per affrontare un secondo esilio nei
Paesi che hanno accettato la loro presenza, ma non il loro diritto di
spostarsi o di lavorare.
Queste considerazioni dovrebbero
improntare le nostre iniziative. Gli Usa e altre nazioni sviluppate
hanno l’opportunità di agire con più intelligenza. Grazie ai colloqui
con i profughi, innumerevoli autorità e rappresentanti della società
civile sono arrivato a individuare tre aree di azione specifica per la
comunità internazionale.
In primo luogo i profughi e i Paesi
ospiti necessitano di maggiori aiuti umanitari, come è particolarmente
evidente a Dadaab in Kenya, vicino al confine con la Somalia. L’ufficio
dell’Alto commissario Onu per i Rifugiati sta facendo un lavoro nobile
ma non può adempiere a tutte le necessità se riceve finanziamenti
insufficienti. In secondo luogo, possiamo aiutare i Paesi ospiti a non
considerare i profughi solo come un fardello, ma come un vantaggio. La
comunità internazionale potrebbe fare molto di più, attraverso gli aiuti
allo sviluppo e gli accordi commerciali per incoraggiare le imprese e
gli stati ospiti a considerare i vantaggi insiti nel dare lavoro alle
persone invece che tenerle nell’ozio (su questo la Banca mondiale e le
Sacre scritture concordano). I profughi hanno voglia di lavorare. In
patria facevano i negozianti, gli insegnanti e i musicisti e vogliono
farlo ancora, o forse fare altre cose — avendo la possibilità di
studiare e formarsi. Hanno bisogno di uno sviluppo che investa in loro e
li emancipi, che non li tratti da beneficiari passivi.
Il mondo
tende a considerare gli aiuti umanitari e gli aiuti allo sviluppo come
due entità separate, ciascuna con la sua struttura burocratica. Ma per
esercitare un’azione più efficace gli aiuti devono essere meglio
coordinati. I profughi nei campi hanno bisogno immediato di cibo e
riparo, ma nel lungo periodo anche di formazione, lavoro e sicurezza
finanziaria.
Terzo, la comunità internazionale deve consolidare e
incrementare gli aiuti allo sviluppo erogati ai Paesi che non sono
crollati, ma sono comunque devastati dalla guerra dalla corruzione e da
governi deboli. La situazione infatti può aggravarsi sempre più fino a
sfociare nell’anarchia. Alcuni governi occidentali ultimamente hanno
tagliato gli aiuti all’estero concentrando la spesa sui richiedenti
asilo all’interno dei propri confini. Però costa meno investire nella
stabilità che lottare contro l’instabilità. La trasparenza, il rispetto
della legalità e media liberi e indipendenti sono a loro volta cruciali
per la sopravvivenza di Paesi ai margini del caos. Perché il caos, lo
sappiamo bene, è contagioso.
Quello che non possiamo permetterci è
che nazioni importanti del Sahel, il gruppo di Paesi poco più a sud del
Sahara, facciano la fine della Siria. Se la Nigeria, ben più grande
della Siria, dovesse spaccarsi in conseguenza dell’azione di gruppi come
Boko Haram, rimpiangeremo di non aver avuto la capacità di fare
progetti più ampi prima della tempesta.
In realtà c’è già chi
pensa in grande. Tutto un insieme di forze — africani e europei, alte
cariche militari e funzionari del Fondo monetario internazionale — fanno
appello affinché si emuli la più geniale delle iniziative americane, il
Piano Marshall. Quel piano portò il commercio e lo sviluppo al servizio
della sicurezza in zone in cui le istituzioni erano distrutte e si era
persa ogni speranza. Bene, la speranza non è persa in Medio Oriente e in
Nord Africa, non ancora, neppure dove è appesa a un filo. Ma la
speranza sta perdendo la pazienza. E dovrebbe valere anche per noi.
Bono,
il cantante degli U2, ha fondato One, organizzazione di
sensibilizzazione sui diritti umani e Red per la lotta all’Aids
(Traduzione di Emilia Benghi) © New York Times.