Repubblica 14.4.16
Il referendum
Tutti i pro e i contro del quesito che vuole lo stop alle trivelle
Domenica
voto sugli impianti in mare che sfruttano i giacimenti di petrolio e
gas. Il Tar respinge i ricorsi per spostare la data. Ecco la guida a
cosa c’è in gioco
di Antonio Cianciullo
Chi ha
voluto il referendum? quante sono le trivelle in gioco? quanto rendono?
quanto petrolio assicurano? e lo smantellamento? cosa faranno i
concorrenti? si perderà lavoro? chi appoggia i due schieramenti?
aumenterà il traffico di petrolio? qual è il futuro del petrolio?
Dalla
vittoria del Sì una probabile riduzione degli impianti. Se prevarrà il
No le perforazioni potranno aumentare nell’ambito delle concessioni
attuali Polemica sugli insediamenti in disuso ma non smantellati. I
Verdi accusano: in questo modo le compagnie petrolifere risparmiano 800
milioni
ROMA. Domenica gli italiani saranno chiamati a
pronunciarsi sulle trivelle. Il referendum mette in discussione il
passaggio della Legge di Stabilità 2016 che ha bloccato le nuove
richieste di sfruttamento degli idrocarburi all’interno delle 12 miglia,
ma ha concesso agli impianti in esercizio di andare avanti a oltranza.
Cosa cambierà in base al voto? Ecco i punti chiave.
Lo hanno
proposto 9 Regioni che chiedono di tornare al quadro legale precedente
all’ultima Legge di Stabilità. Dunque chi vuole che, allo scadere della
concessione, si torni al regime che prevedeva un limite temporale
all’uso del petrolio dovrà votare sì. Chi è soddisfatto della situazione
attuale dovrà votare no.
Nella fascia delle 12 miglia ci sono 44
concessioni. Una parte però sono inattive. In totale ci sono 79
piattaforme e 463 pozzi, distribuite tra Adriatico, Ionio e Canale di
Sicilia. Di queste, 9 concessioni (per 38 piattaforme) sono scadute o in
scadenza ma con proroga già richiesta; altre 17 concessioni (per 41
piattaforme) scadranno tra il 2017 e il 2027 e arriveranno in ogni caso a
naturale scadenza. Se vinceranno i sì, si andrà a una lenta riduzione
della presenza di trivelle in mare. Se vinceranno i no le trivelle
potranno espandersi perché la legge vigente non impedisce che,
nell’ambito delle concessioni già rilasciate, siano fatte nuove
perforazioni.
Ci sono i canoni per la prospezione, ricerca,
coltivazione e stoccaggio (vanno dai 3,59 euro a chilometro quadrato per
le attività di prospezione ai 57,47 euro a chilometro quadrato per le
attività di coltivazione). E le royalties che in Italia sono pari al 10%
per il gas e al 7% per il petrolio in mare. Sono esenti dal pagamento
di aliquote allo Stato le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte
annualmente in terraferma, le prime 50 mila tonnellate di petrolio
prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas
estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare:
in altre parole, entro questi limiti l’estrazione è gratuita. Cosa
significa in pratica? Nel 2015, su 26 concessioni produttive, solo 5 di
quelle a gas e 4 a petrolio hanno pagato le royalties. In totale nelle
casse pubbliche l’anno scorso sono entrati 352 milioni di euro
dall’insieme delle trivelle a terra e a mare (quelle in discussione
assicurano una minima parte di questo gettito). Sull’altro piatto della
bilancia bisogna calcolare gli aiuti diretti e indiretti ai combustibili
fossili, una cifra che supera gli incentivi alle fonti rinnovabili.
Circa
lo 0,9 per cento del petrolio e meno del 3 per cento del metano che
usiamo viene dalle trivelle messe in discussione. Se si usasse solo
questo greggio per l’intero consumo nazionale, basterebbe per meno di
due mesi. In caso di vittoria dei sì potrebbero scattare progetti
compensativi come il rilancio del biometano.
Una voce consistente
di costo è lo smantellamento delle piattaforme al momento della chiusura
delle attività assicurando il ripristino dello stato iniziale del
luogo. Senza un termine per l’uso del giacimento, le compagnie
petrolifere potrebbero essere tentate di lasciare a lungo gli impianti
inattivi per ritardare il momento della bonifica del sito. Secondo i
Verdi questa norma, voluta dall’ex ministro dello Sviluppo economico
Federica Guidi, consentirebbe ai petrolieri di risparmiare 800 milioni
di euro.
In questo momento non si vede una spinta all’espansione
delle trivelle. La Croazia, che è l’altro paese che ha piattaforme
nell’Adriatico, ha firmato una moratoria contro le nuove trivellazioni.
Un atto che segue di qualche mese la rinuncia da parte di due compagnie
petrolifere a proseguire le attività di ricerca di giacimenti in acque
croate su 7 delle 10 aree che il governo aveva dato in concessione.
Anche la Petroceltic ha rinun- ciato a un permesso di ricerca a largo
delle isole Tremiti. Inoltre pochi giorni fa il ministro francese
dell’Ambiente e dell’Energia, Ségolène Royal, ha proposto una moratoria
sulle trivelle nel Mediterraneo per prevenire “le conseguenze
drammatiche che possono colpire l’insieme del Mediterraneo in caso di
incidente”.
Il fronte del no ritiene che ci siano 10 mila posti di
lavoro a rischio. Ma la Fiom-Cgil ricorda che gli impianti off shore
sono sorvegliati da remoto solo da 70 persone. Per aggiungere uno o due
zeri a questa cifra bisognerebbe immaginare una forte espansione delle
trivelle. Che, secondo il fronte del sì, comporterebbe una pesante
perdita di posti di lavoro nel settore turistico, producendo un saldo
occupazionale complessivo in negativo.
I due fronti sono
trasversali. Per il sì sono schierati praticamente all’unisono il fronte
ambienta-lista, le forze a sinistra del Pd, la Fiom, un gruppo di 300
associazioni che hanno dato vita al Comitato Vota sì per fermare le
trivelle, buona parte della minoranza Pd, molti personaggi del mondo
dello spettacolo (da Luca Zingaretti ad Adriano Celentano), Ermete
Realacci presidente della commissione Ambiente della Camera, Alex
Zanotelli, i vescovi, i Cinque Stelle, Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
Per l’astensione mirata a far naufragare il referendum si è schierato il
Pd. Forza Italia ha lasciato libertà di coscienza.
I quantitativi
sono estremamente ridotti. Il petrolio è l’equivalente di quello
trasportato da tre navi in un anno. Dal punto di vista del traffico
marino in caso di vittoria dei sì ci sarebbe comunque una diminuzione
perché oggi il petrolio viene portato a terra via oleodotto ma poi
imbarcato per arrivare alle raffinerie.
E’ la domanda cruciale. E
le risposte concordano su tutto tranne che sulla data di dismissione.
L’uso dei combustibili fossili non è compatibile con il mantenimento del
clima attuale. La conferenza Onu di Parigi ha deciso all’unanimità che
il riscaldamento globale dovrà essere arrestato al di sotto dei 2 gradi
di aumento e di fare ogni sforzo per non superare la barriera di 1,5
gradi. Per l’Europa, calcola la Fondazione per lo sviluppo sostenibile,
stare al di sotto 1,5 gradi significa passare a una riduzione del 50 per
cento delle emissioni serra entro il 2030: una forte accelerazione che
richiede un passo indietro immediato sul fronte delle trivelle, non un
passo avanti