Corriere 14.4.16
Referendum tenuti in ostaggio
di Pierluigi Battista
L’
istituto democratico del referendum ha per vocazione la possibilità di
respingere o confermare «qualcosa», una legge, un valore, una norma, un
principio. Si sta inesorabilmente trasformando, invece, in una guerra
senza quartiere pro o contro «qualcuno», da demolire o plebiscitare, da
ripudiare o da osannare. Se in Italia un cittadino volesse votare nel
referendum a favore delle trivelle in mare, ma volesse anche,
legittimamente, che il governo Renzi fosse indebolito, cosa può fare:
scegliere «qualcosa», il merito del quesito referendario, oppure trovare
il pretesto per dare una spallata a «qualcuno»? E come può sciogliere
il dilemma l’elettore che fosse a favore di Renzi ma che nel referendum
di ottobre volesse votare contro la riforma costituzionale sottoposta a
consultazione popolare?
Con questa deformazione, il referendum ne
esce ovviamente snaturato e stravolto. Era già sfibrato prima, con la
sequenza infinita di appuntamenti disertati dagli elettori con la
conseguente mancanza del quorum richiesto. Ma così l’istituto
referendario viene alterato fino a renderlo irriconoscibile. Magari lo
vorrebbero rivitalizzare con una forte personalizzazione della battaglia
referendaria, ma il merito dei quesiti svanisce. I temi spariscono. Il
pro o contro si sposta e accade, come nel referendum del prossimo 17
ottobre, che il dibattito si trasferisca sulla liceità o meno
dell’astensione.
I mpegnando il governo su un terreno che non
dovrebbe essere il suo e mobilitando addirittura i giudici
costituzionali, che entrano volentieri in una diatriba politica già
incandescente. Non ce n’era bisogno.
In passato non è quasi mai
stato così. Nei referendum più rilevanti della storia repubblicana il
merito dei quesiti ha pressoché sempre prevalso sul «qualcuno». Nella
battaglia sul divorzio, Pannella da una parte e Fanfani dall’altra hanno
certo calamitato simpatie ed avversioni, ma noi ricordiamo bene che il
divorzio è stato una svolta civile nella storia del nostro Paese. È
stato così anche per il referendum sul finanziamento pubblico dei
partiti, sulla depenalizzazione dell’aborto o per quello che ha
cancellato la possibilità stessa di costruire centrali nucleari. Una
fortissima connotazione politica e personale ha pesato sul referendum
sul taglio dei punti di scala mobile, che segnò la disfatta politica per
il Pci berlingueriano dopo la morte del leader comunista e la vittoria
di Bettino Craxi. Lo stesso Craxi che, con l’invito ad andare al mare
nel referendum sulla preferenza unica voluto da Mariotto Segni, ha a sua
volta conosciuto il sapore amaro della sconfitta senza prevedere che in
quel referendum stessero condensandosi tutti gli umori di rigetto del
sistema dei partiti della Prima Repubblica. Ma i temi erano chiari, il
merito delle questioni era rispettato e noi oggi ricordiamo le parole
divorzio, aborto, nucleare, scala mobile, legge elettorale e molto meno
il nome dei leader vincitori o sconfitti.
Poi l’abuso dei
referendum, la moltiplicazione dei quesiti fino al parossismo, la
difficoltà di concentrare l’attenzione pubblica su temi tanto variegati e
dispersivi, tutto questo ha inevitabilmente minato la stessa
credibilità di quell’istituto. I referendum annullati per mancanza del
quorum sono stati innumerevoli. E quello sulla riforma costituzionale
voluta dallo schieramento di Berlusconi e allora bocciata dalla sinistra
non suscitò grandi passioni, passando quasi inosservato. Ma il
referendum trasformato in plebiscito è un rimedio peggiore del male.
Sbagliano i promotori a mettere in collegamento il referendum sulle
trivelle con le turbolenze del governo dopo le dimissioni della ministra
Guidi. Ma anche il premier non fa una scelta saggia facendo del
referendum sulla riforma del Senato l’ordalia decisiva per la sua
carriera politica, in un Armageddon finale del Renzi contro tutti,
soprattutto perché si è sempre detto che le regole delle istituzioni non
sono monopolio di un governo, e anche di una maggioranza parlamentare.
Non ci sono nemici da «spazzare via» attraverso il referendum, come usa
dire il premier, ma solo avversari di una riforma che continueranno a
combattersi anche quando la riforma delle istituzioni dovesse essere
approvata. Per fare una discussione anche accesa, democraticamente
appassionata, su «qualcosa» e non per l’apoteosi o la rovina di
«qualcuno».
Pierluigi Battista