Repubblica 13.4.16
Il dilemma occidentale
di Roberto Toscano
CHE
fare con l’Iran? L’accordo nucleare è destinato a rimanere un fatto
isolato oppure è giusto considerarlo un punto di partenza? Sembra oggi
possibile per l’Italia e per l’Europa muovere in direzione di più
intensi rapporti con l’Iran, a partire da quelli economici. Ma è forse
legittimo ignorare il comportamento del regime iraniano dalla pena di
morte alla repressione del dissenso? Commerciare o condannare? Ma se
scegliamo la via della condanna, non danneggeremo i nostri interessi,
soprattutto se teniamo presente che qualche concorrente meno sensibile
non chiede di meglio che prendere il nostro posto?
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SONO
questi gli interrogativi che in questi giorni hanno accompagnato,
spesso con accenti molto critici, la visita di Renzi a Teheran.
Vale
forse la pena di ricordare come non si tratti di qualcosa di unico, di
una problematicità che riguarda soltanto i rapporti con l’Iran. Il
dilemma fra interessi economici e principi ha caratterizzato l’intero
percorso della Guerra Fredda, e oggi tocca anche le nostre relazioni non
solo con l’Egitto, ma anche con Paesi come Russia, Cina, Arabia
Saudita.
Ecco una prima importante considerazione: i principi, se
si vuole che siano credibili, impongono coerenza. La situazione dei
diritti umani in Cina è pessima, con un controllo repressivo sui
cittadini fra i più capillari, e i boia cinesi non sono certo secondi a
quelli iraniani. Ma non abbiamo sentito molte voci, ultimamente, alzarsi
per chiedere che non si facciano affari con la Cina. Lo stesso possiamo
dire dei rapporti con l’Arabia Saudita o con Paesi africani retti da
dittatori feroci e corrotti.
Uguale considerazione si può fare per
quanto riguarda la politica estera. Respingiamo con decisione — e
contiamo sul fatto che questo sia stato ribadito con fermezza da Renzi
ai suoi interlocutori iraniani — il rifiuto di Teheran di accettare
l’esistenza di Israele, ben diverso dalla critica, legittima, di
concreti aspetti della politica del governo israeliano. Ma sostenere che
per questo motivo si dovrebbe rifiutare di sviluppare i rapporti
economici con l’Iran ci imporrebbe una doverosa ma insostenibile
coerenza: non fare affari con la Russia a causa della Crimea, o con
l’Arabia Saudita a causa dello Yemen, per non parlare della situazione
deplorevole dei diritti umani nei due Paesi.
La questione dei
diritti umani — come hanno ricordato gli intellettuali che hanno inviato
sul tema una lettera aperta a Renzi — deve rimanere irrinunciabile, ma
non può essere affrontata come se si trattasse di un dilemma in cui sia
possibile scegliere una delle due alternative: promuovere i rapporti
economici ignorando i diritti umani oppure difendere con intransigenza i
diritti umani sacrificando gli interessi economici. Chiunque abbia una
minima conoscenza della politica estera si rende conto che
un’alternativa secca fra queste due opzioni non solo non è possibile, ma
non si è mai vista. Per l’Italia poi sarebbe particolarmente
inconcepibile, data la dipendenza della nostra economia dalla dimensione
esterna e nello stesso tempo l’alto profilo dell’Italia sui diritti
umani, sia essenziale dimensione identitaria che componente di un nostro
soft power. Bisogna invece avere il coraggio di ammettere che,
piuttosto che a un dilemma da risolvere con una scelta alternativa,
siamo di fronte a una tensione permanente.
Orientarsi fra questi
due poli contrapposti è difficile, ma nessuno ci ha mai garantito che la
politica, sia interna che estera, sia facile. Ci possono solo aiutare
due considerazioni. La prima riguarda l’entità delle violazioni dei
diritti umani: un genocidio richiede una risposta ben più radicale e
incondizionata che non la repressione del dissenso politico. La seconda
impone di non limitarsi all’imperativo di reagire alle offese alla
libertà e alla dignità, ma di considerare in che misura la nostra azione
può influire sul superamento di quelle offese.
E qui torniamo al
caso concreto dell’Iran. È da sperare che il nostro presidente del
Consiglio abbia colto l’occasione degli incontri con i vertici della
Repubblica Islamica per confermare che per l’Italia i diritti umani non
sono una bandiera retorica ma — anche in armonia con quanto consacrato
nei trattati europei — una dimensione costitutiva della nostra politica
estera. E magari abbia anche citato casi concreti, che certo non
mancavano di essere elencati nei dossier della visita.
Ma vi è una
domanda che non può essere elusa da chi si è opposto a questa visita e
in genere allo sviluppo dei rapporti fra Italia e Iran: siamo davvero
convinti che sarebbe meglio per i cittadini iraniani se il loro Paese
fosse isolato? Sembra difficile sostenerlo, tanto più che la scelta
dell’apertura al mondo è alla radice dell’elezione di Rouhani, che anzi
viene oggi criticato perché quella promessa tarda a realizzarsi. Non è
poi un mistero che sono quelli che, al contrario, sono a favore
dell’isolamento e del radicalismo ideologico che oppongono all’ipotesi
di una crescente integrazione economica con il resto del mondo quella di
un’autarchica “economia di resistenza”.
In questo senso economia,
politica estera e politica interna sono strettamente collegati. Lo
sanno i democratici iraniani che — ricavando un inconfutabile
insegnamento dai casi iracheno e libico — non credono nella prospettiva
di un “cambiamento di regime” ma puntano su una lunga, e inevitabilmente
contrastata, maratona verso una trasformazione che la storia, la
cultura e la demografia dell’Iran rendono non solo possibile, ma
necessaria.
Gli iraniani non ci sarebbero grati se dovessimo
apparire indifferenti alle loro aspirazioni di libertà, ma ci sarebbero
ancora meno grati se risultassimo di fatto conniventi con chi li vuole
mantenere sotto controllo isolandoli dal mondo esterno.
L’autore è diplomatico e scrittore, già ambasciatore in Iran e in India