Repubblica 13.4.16
Ora il vero nodo è la legge elettorale
di Guido Crainz
ERA
difficile persino immaginare che questo Parlamento, incapace
inizialmente sin di eleggere un Presidente della Repubblica, avrebbe
portato a termine la riforma del Senato. Avrebbe portato cioè al
superamento del bicameralismo paritario, considerato necessario ormai da
tempo e da più parti: lo aveva auspicato sin dalla metà degli anni
Settanta Umberto Terracini.
DELL’ASSEMBLEA Costituente, Terracini
era stato presidente, e da allora il tema era stato posto in più forme.
Senza alcun esito, prima dell’approvazione di questa riforma ad opera
del disomogeneo Parlamento attuale, diversamente diviso sia all’interno
della maggioranza che dell’opposizione. Nel valutare questo appprodo è
bene forse avanzare alcune osservazioni generali che rinviano
all’indietro e aprire al tempo stesso — nel modo migliore, per quel che è
possibile — la discussione che dovrà condurci sino al referendum. Un
passaggio impegnativo e un indubbio banco di prova della maturità del
Paese.
Evoca molti aspetti della nostra storia repubblicana la
vicenda del Senato: alla caduta del fascismo e della monarchia, e nel
dibattito stesso della Costituente, l’abolizione del Senato di nomina
regia e il complesso delinearsi del bicameralismo paritario furono il
segno di una rottura col passato ma vennero al tempo stesso a riflettere
le incertezze del tempo. Quel dibattito ci aiuta ad evocare bene,
infatti, le incognite di uno scenario segnato ormai dalla guerra fredda e
nel quale non era per nulla scontato l’esito delle elezioni politiche
che sarebbero venute: alla Costituente la somma dei voti di comunisti e
socialisti aveva superato quelli della Democrazia cristiana (che nei
mesi sucessivi conobbe poi ulteriori crolli nel Mezzogiorno, per
l’esplodere dell’Uomo qualunque). Venne anche da qui la scelta netta di
Alcide De Gasperi a favore del bicameralismo, anche se il modo di
pensare alla seconda Camera mutò progressivamente: nel 1944 la
immaginava “prevalentemente eletta dalle rappresentanze del lavoro e
delle professioni” — con evidenti influenze del corporativismo cattolico
— mentre il primo ordine del giorno approvato da una sottocommissione
della Costituente, con l’astensione delle sinistre, prevedeva che essa
fosse eletta da Comuni e Regioni (Le Regioni e i Comuni eleggeranno la
Seconda Camera titola l’”Unità” il 17 ottobre del 1946, e critica questa
scelta). Non fu dunque lineare il percorso che portò al “bicameralismo
paritario” poi sancito, con differenze marginali nella elezione dei due
rami del Parlamento: sottolineavano il valore di “contrappeso” del
Senato sia la maggior età richiesta per il voto sia la durata più lunga
rispetto alla Camera, inizialmente prevista e mai rispettata (nel 1958 e
nel 1963 il Senato fu sciolto anticipatamente per eliminare la
sfasatura, e venne poi la modifica costituzionale). Non vi è nulla di
intangibile dunque nel modo in cui venne a delinearsi il Senato della
Repubblica, radicato com’era nel clima del tempo: è un gran bene che nel
corso del dibattito parlamentare siano state progressivamente
abbandonate le urla sulla “Costituzione stracciata” e il dibattito si
sia più seriamente orientato sul concomitante operare della riforma del
Senato e della nuova legge elettorale. Cioè sul nodo vero che sta sullo
sfondo, e sul quale in realtà dovremo pronunciarci. Terminato l’iter
parlamentare c’è da augurarsi infatti con forza che il dibattito fra le
forze politiche e nel Paese recuperi quello “spirito costituente” che
troppo spesso è mancato sin qui (ed era mancato anche nel recente
passato della Bicamerale, a voler essere onesti). C’è da augurarsi che
prevalga — di nuovo, nelle forze politiche e nel Paese — la
consapevolezza di compiere un atto significativo, qualunque sia la
scelta che verrà compiuta, nel mai esaurito compito di rimodellare la
Casa comune rispondendo alle esigenze del tempo.