il manifesto 13.4.16
Io dico no ai ladri di sovranità
Da
una forma di stato e di governo nata dall’antifascismo a una plasmata
sulle richieste della finanza. Non importa se uscire dalla crisi
significa uscire dalla democrazia
di Tommaso Montanari
«La
sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti previsti dalla Costituzione». È su queste fondamenta, sulle
parole del secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione, che poggia
l’edificio della giovane democrazia italiana: tanto sulle prime (i
sovrani siamo noi), quanto sulle seconde (fuori delle forme e dei limiti
previsti dalla Costituzione stessa non c’è sovranità popolare, ma
arbitrio del più forte).
Oggi un Governo non legittimato da un
voto – e che gode della fiducia di un Parlamento eletto con una legge
dichiarata incostituzionale – prova a cambiare, in un colpo solo, 47
articoli della Costituzione, e invoca un referendum-plebiscito su se
stesso («Se perdo il referendum, lascio la politica», dichiara il
Presidente del Consiglio).
Vorrei mostrare perché questo enorme
furto di sovranità non sia isolato: anzi, come esso sia il drammatico
culmine di un vero e proprio saccheggio di sovranità popolare che dura
da anni.
«Saranno semplicemente gli italiani, e nessun altro, a
decidere se il nostro progetto va bene o no», ha detto Renzi nel gennaio
2016. Dietro questa cortina retorica intessuta di populismo e
bonapartismo di terza mano, la realtà è assai diversa: quale sia la vera
considerazione in cui il presidente del Consiglio tiene le decisioni
degli italiani lo ha svelato – solo due mesi dopo – l’emendamento del
Partito Democratico alla legge di iniziativa popolare sull’acqua
pubblica: «Quasi cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di
italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che
l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di
cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che
sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici.
Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita, e
perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento
essenziale per l’intervento diretto dei cittadini» (S. Rodotà).
Questo
cortocircuito è straordinariamente eloquente: non solo perché strappa
la maschera alla retorica del «decideranno gli italiani», ma perché
indica con chiarezza chi si siede sul trono della sovranità, una volta
che i cittadini ne siano stati estromessi: il Mercato, signore assoluto
delle nostre vite. Un mercato a cui non c’è alternativa: There Is No
Alternative (TINA), secondo il celebre motto di Margaret Thatcher. Ed è
proprio questo il senso profondo della “riforma” che sfascia la forma di
Stato e di governo della Repubblica: mettere TINA in Costituzione, cioè
costituzionalizzare la mancanza di alternativa al sistema del
finanz-capitalismo. Distruggere gli strumenti con cui qualcuno, un
domani, potrebbe costruirla, un’alternativa.
La genesi
ultraliberista della “riforma” è apertamente dichiarata dai nuovi
“padri” costituenti. La relazione introduttiva al disegno di legge
costituzionale n. 813 – presentato il 10 giugno 2013 dal Governo Letta
(e firmata da Enrico Letta, Gaetano Quagliarello e Dario Franceschini), e
ultima tappa prima del n. 1429 del Governo Renzi – sostiene che: «Gli
elementi cruciali dell’assetto istituzionale disegnato nella parte
seconda della nostra Costituzione (forma di governo, sistema bicamerale)
sono rimasti sostanzialmente invariati dai tempi della Costituente. È
invece opinione largamente condivisa che tale impianto necessiti di
essere aggiornato per dare adeguata risposta alle diversificate istanze
di rappresentanza e d’innovazione derivanti dal mutato scenario
politico, sociale ed economico; per affrontare su solide basi le nuove
sfide della competizione globale; dunque, per dare forma, sostanza e
piena attuazione agli stessi principi fondamentali contenuti nella parte
prima della Carta costituzionale».
È un testo cruciale per
comprendere perché si sono fatte le “riforme”. Se è mostruosa
l’ipocrisia per cui tutto questo permetterebbe di attuare i principi
fondamentali – sovranità popolare (art. 1), eguaglianza sostanziale e
pieno sviluppo della persona umana (art. 3), tutela del paesaggio (art.
9)…! –, è almeno chiarissimamente enunciato il fine ultimo di questa
macelleria costituzionale: «affrontare la competizione globale».
Questa
scoperta dichiarazione va intesa come atto di esplicita e pubblica
sottomissione ai mercati internazionali. In quegli stessi giorni del
giugno 2013, infatti, si era diffusa nel discorso pubblico italiano
l’eco di un importante documento della grande banca d’affari americana
J. P. Morgan (The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio
2013) in cui si sosteneva che «Le Costituzioni e i sistemi politici dei
Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del
fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a
un’ulteriore integrazione della regione… All’inizio della crisi si era
generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei
fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della
crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella
periferia , che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione
Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente. Queste
Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che
riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la
sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in
genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali
deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei
lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e
il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo
status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla
crisi… Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo
in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità
impegnarsi in importanti riforme politiche»….
È impressionante
notare come, quasi un anno dopo, quello stesso nesso venisse ammesso
esplicitamente in un fondo dell’accreditatissimo quirinalista del
Corriere della Sera, Marzio Breda: «Ma una cosa il Capo dello Stato non
la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è
importante, anzi «improrogabile», dunque è positivo che ci si lavori
subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in
infinite occasioni, per dare una scossa contro «la persistente inazione
del Parlamento». Spiegando che «la stabilità non è un valore se non si
traduce in un’azione di governo adeguata» (ciò che in Senato con
identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a
quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale. A questo
proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il
28 maggio 2013, là dove indice nella «debolezza dei governi rispetto al
Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi
congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione
di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non
dispiace».
Riassumendo: le più alte cariche della Repubblica hanno
operato perché si passasse da una forma di Stato e di governo scaturita
dall’antifascismo, a una plasmata sulle richieste delle grandi banche
internazionali. Non importa se uscire dalla crisi significa uscire dalla
democrazia: è questa la «sfida decisiva della missione di Renzi».
E
la missione appare oggi decisamente compiuta. Intervenendo sul Titolo
V, la “riforma” costituzionale riporta il Paese a un nuovo centralismo,
correggendo radicalmente uno dei quattro punti critici rilevati da JP
Morgan («Stati centrali deboli rispetto alle regioni»). Con il combinato
disposto di “riforma” costituzionale e legge elettorale si costruisce,
poi, una dittatura della maggioranza parlamentare (che corrisponde
magari a una minoranza dei votanti, e a una estrema minoranza degli
aventi diritto al voto) che ne “risolve” un altro: quello dei «governi
deboli» rispetto ai Parlamenti. E, d’altra parte, la verticalizzazione
autoritaria è un tratto “culturale” – vorrei dire antropologico – della
politica berlusconiana-renziana: un modello a cui conformare financo la
scuola o i musei, che cessano di essere pensati come comunità di pari e
vengono affidati, rispettivamente, a presidi autocrati e
direttori-manager…
È questo il paradossale cuore del progetto:
costruire i presupposti costituzionali ed elettorali per cui una
minoranza molto determinata possa dismettere il ruolo dello Stato in
settori strategici, a scapito degli interessi di una maggioranza
anestetizzata e ridotta al silenzio. Altro che rottamazione: il
programma è ancora quello enunciato il 20 gennaio del 1981 da Ronald
Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa
Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our
problem; government is the problem» (uno slogan che ricompare, senza il
suo imbarazzante autore, tra quelli della Leopolda 2014). È questa la
dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e
solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la
parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira
esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non
scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte
Costituzioni formali, volta a cancellare le conquiste che la classe
lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o
quarant’anni dopo la guerra».
*Il testo è tratto da “Io dico no”, edizioni GruppoAbele