Repubblica 12.4.16
La deriva antieuropea dei “nipoti” di Habermas
Le idee federaliste del maestro sono state già criticate dai fautori di un paese che recupera il mito imperiale
Molti suoi discepoli di un tempo attaccano soprattutto la politica di accoglienza dei migranti scelta dal governo
di Angelo Bolaffi
In Germania gli ex allievi sfidano il filosofo. In nome di un nazionalismo di sinistra
Ametà
degli anni ’80 del secolo scorso il dibattito tra storici segnò uno
spartiacque nella vicenda politica e spirituale tedesca che mise davvero
fine al dopoguerra in Germania. Fu Jürgen Habermas per primo, poi
seguito da altri importanti autori, a intuire la velenosa pericolosità
della tesi “revisionista” di Ernst Nolte che aveva parlato di un nesso
causale tra l’”Arcipelago Gulag” e Auschwitz, tra terrore staliniano e
sterminio nazista degli ebrei. Allora, si può dire, vennero poste le
basi culturali della Germania “post-tedesca”. A tre decenni di
distanza
ancora una volta è l’ultimo grande rappresentate di quella che fu la
Scuola di Francoforte a essere protagonista di una battaglia teorica e
filosofica: questa volta a difesa degli ideali europeisti e del processo
europeo di integrazione politico-istituzionale.
Anche questa
volta è in gioco il destino politico della Germania e il suo ruolo nel
Vecchio Continente. Ma a differenza di allora oggi gli avversari di
Habermas non sono pensatori di destra o nostalgici sostenitori di una
Germania “neoguglielmina” come Thilo Sarrazin o quelli raccolti attorno
alla AfD (Alternative für Deutschland). Ma intellettuali, sociologi e
giuristi, ecco il paradosso, formatisi alla sua scuola, ma radicalmente
ostili dal punto di vista teorico come da quello politico alla
prospettiva europeista. Insomma Habermas è dovuto scendere in campo
contro i suoi stessi allievi e le loro tesi che riecheggiano «toni di
nazional-populismo di sinistra» secondo l’efficace formula usata da
Alberto Martinelli nel suo saggio Mal di nazione. L’ultimo e più recente
capitolo di questa “lite in famiglia” è legato alla polemica seguita
alla conferenza tenuta da Habermas alla Sorbona nel 2014, il cui testo è
stato pubblicato in Italia nell’ultimo numero di Phenomenology and
Moral (n. 8/2015 Firenze, University Press p. 26-38), la rivista diretta
da Roberta De Monticelli, intitolato Philosophy and the Future of
Europe. Nella sua lectio magistralis Habermas, sviluppando argomenti già
in precedenza discussi, riflette se e come sia possibile la
«affermazione di un processo decisionale politico comune in Europa» pure
in assenza di «un popolo europeo»: l’obiezione «della mancanza di un
demos europeo sposta l’attenzione da un fattore che invece dobbiamo
prendere sul serio — cioè la convinzione che le conquiste normative
dello Stato di diritto democratico siano degne di essere preservate».
Com’è
noto la contraddizione posta a fondamento del funzionamento
istituzionale dell’edificio europeo, un campo di tensione che ne
minaccia costantemente sia il funzionamento che il grado di
legittimazione democratica, è costituito dalla “sovranità bicefala”: da
una parte gli Stati nazionali e i loro governi di cui è espressione il
Consiglio europeo. Dall’altra i cittadini d’Europa rappresentati dal
Parlamento di Strasburgo. Gli Stati nazionali gelosi della loro
sovranità tendono naturalmente a privilegiare l’aspetto
intergovernativo. La sovranità dei popoli di cui è espressione il
Parlamento è, invece, tendenzialmente federalista. Secondo Habermas
questa contraddizione potrebbe venir superata da una riforma dell’Unione
europea «ricostruita come il risultato del processo costituzionale
messo in atto da un ‘doppio’ potere sovrano quello dei cittadini dei
singoli Stati e quello dei cittadini dell’Unione ». In tal modo si
garantirebbe che nel processo di «transnazionalizzazione della
democrazia» gli Stati nazionali continuino a esistere quali garanti dei
livelli raggiunti di giustizia sociale e libertà politica il che
impedirebbe un processo di gerarchizzazione come in un “vero” Stato
federale. Anzi «la confederazione deve essere costruita in modo tale che
venga mantenuta la relazione eterarchica tra gli Stai membri e la
federazione».
Un federalismo corretto, dunque, quello proposto da
Habermas che tiene conto delle specificità storico-culturali dell’Europa
ben lontane da quelle che portarono agli Stati Uniti d’America.
Nonostante le dure critiche (talvolta non sempre condivisibili, per la
verità) che ha rivolto e rivolge anche in questa conferenza alla
politica del governo tedesco e all’azione della Commissione di Bruxelles
in questi anni di crisi, Habermas è convinto che nelle attuali
condizioni del mondo globale l’unica prospettiva percorribile resti
quella di una «unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa».
Contro
questa ipotesi del loro antico maestro sono scesi nuovamente in campo
tra gli altri autori quali Wolfgang Streeck e Fritz W. Scharpf (Claus
Offe che pure condivide le loro posizioni ha preferito tenersi fuori)
che per anni hanno diretto il prestigioso Max Planck Institut per la
ricerca sociale di Colonia, con una serie di interventi apparsi nei vari
numeri del 2015 della rivista berlinese
Leviathan. Wolfgang
Streeck, che il lettore italiano conosce come autore del libro Tempo
guadagnato. La crisi del capitalismo democratico (Feltrinelli) ha poi
rincarato la dose con un aggressivo articolo apparso nell’ultimo numero
della
London Review of Books ( Scenario for a wonderful Tomorrow”,
31. Marzo 2016) in cui ha apertamente attaccato la politica di
accoglienza dei migranti della Merkel con toni e argomenti che hanno
fatto scandalo al punto che Gustav Seibt sulla Süddeusche Zeitung ha
parlato di questo articolo come espressione di «un Fronte nazionale
tedesco, per ora senza odio verso l’Islam».
Gli argomenti addotti
dagli antieuropeisti tedeschi di sinistra sono di natura storica,
politica e sistemica. Sono per lo più intimamente contraddittori ma,
occorre aggiungere, in qualche caso costituiscono una vera e propria
sfida intellettuale che conviene prendere sul serio se davvero si è
convinti che per costruire un’Europa unita non basti tesserne le lodi. E
tuttavia è difficile sottrarsi alla sensazione che questi “nipotini di
Habermas” stiano combattendo una battaglia di retroguardia contro
fantasmi ideologici — l’unificazione tedesca, la vittoria del cosiddetto
neoliberismo imposta dalla globalizzazione di cui l’unificazione
europea sarebbe uno dei momenti decisivi a discapito degli Stati
nazionali e dei sistemi di Welfare — per esorcizzare il fallimento della
loro biografia intellettuale decretato dalla storia.
Che poi le
loro tesi abbiano eco in settori del sindacalismo tedesco (e
nordeuropeo) e della stessa Spd costituisce drammatica conferma della
crisi spirituale e politica della sinistra europea, capace al massimo di
funzionare da strumento di difesa corporativa di settori della classe
operaia ma ormai non più in grado di produrre un effetto di egemonia
sulla società perché non dispone più di una proposta universalistica di
emancipazione.