Repubblica 12.4.16
L’abdicazione della politica
L’astensionismo
invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di
democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità
di Ezio Mauro
UNA
VOLTA, quando i rappresentanti eletti in un’assemblea si trovavano
davanti un problema improvviso, su cui non avevano ricevuto un mandato
preciso dai loro elettori, scattava il “referendum”: i delegati
tornavano da chi li aveva votati per chiedere istruzioni specifiche,
portando appunto la questione ad referendum. Era l’epoca del mandato
imperativo, e cioè l’eletto era strettamente vincolato alla volontà
specifica di coloro che rappresentava. Oggi invece c’è nelle Camere la
piena libertà di mandato e ogni parlamentare esercita questa sua libertà
e autonomia in quanto rappresentante della Nazione. E tuttavia
l’istituto del referendum è arrivato fin qui, si potrebbe dire per vie
traverse. Fu affacciato occasionalmente nel voto popolare che approvò la
Costituzione delle Repubbliche Cisalpina, Cispadana e Ligure.
ASSENTE
nello Statuto Albertino, usato da Mussolini sotto forma di plebiscito
nel 1929 e nel 1934, sanzionò infine la nascita della Repubblica nel
1946, poco prima di iscriversi nella Costituzione repubblicana, come
conferma solenne della forma mista scelta per il nuovo regime statuale,
con singoli istituti di democrazia diretta chiamati a convivere in un
sistema generale di democrazia rappresentativa.
Bisogna anzi
ricordare che secondo il progetto originario preparato nella II
Sottocommissione dell’Assemblea Costituente il sistema italiano aveva
ben quattro tipi di referendum: due di iniziativa governativa (in caso
di conflitto tra l’esecutivo e il Parlamento, o di legge bocciata dalle
Camere) e due promossi direttamente dal corpo elettorale. Nel voto
finale passò il solo referendum abrogativo tra le vive preoccupazioni
del partito comunista, convinto che un abuso del nuovo istituto avrebbe
potuto ostacolare l’efficienza democratica del Parlamento nella sua
funzione legislativa fondamentale. La risposta del relatore, Costantino
Mortati, fu che il referendum avrebbe consentito di superare «i limiti
dei partiti» dando la parola agli elettori, e avrebbe permesso di
verificare «la saldatura tra il popolo e la sua rappresentanza
parlamentare». E qui Mortati rivendicò il principio di contraddizione
democratica in base al quale il referendum inquieta il potere
costituito, settant’anni fa come oggi: «Il referendum — disse — si basa
proprio sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da
quello del Parlamento».
Tutto qui, ed è moltissimo. Il referendum
non è un disturbo, nel nobile procedere del cammino legislativo sovrano.
È un’articolazione di quel potere, un suo completamento altrettanto
nobile e legittimo e una sua integrazione attraverso la fonte popolare
diretta, voluta dalla Costituzione proprio per consentire all’elettore
di non essere soltanto un “designatore” ma di poter esercitare (oltre
alla scelta dei suoi rappresentanti) lo ius activae civitatis, cioè il
diritto di intervenire con la sua opinione su un tema controverso e
dibattuto che riguarda la soddisfazione di un interesse pubblico. È
dunque perfettamente corretto quel che ha detto ieri il presidente della
Consulta Paolo Grossi, ricordando che ogni elettore è libero di votare
nel modo che ritiene giusto ma «si deve votare perché partecipare al
voto significa essere pienamente cittadini», anzi «fa parte della carta
d’identità del buon cittadino».
Il potere dunque deve imparare,
settant’anni dopo, che il «buon cittadino» è tale quando va alle urne
per scegliere tra le proposte concorrenziali dei diversi partiti e dei
loro rappresentanti (se possibile non con liste bloccate), ma anche
quando usa la scheda referendaria per controllare-correggere- abrogare
una scelta delle Camere, nel presupposto che esista un forte interesse
popolare alla ri-discussione di quel tema e di quella legge: interesse
certificato dalla soglia dei 500 mila elettori o dei 5 consigli
regionali necessaria per chiedere il referendum, insieme con
l’intervento di una minoranza parlamentare pari a un quinto. La
democrazia che ci siamo scelti si basa dunque sulla compresenza delle
due potestà, diversamente regolate, concorrenti e tuttavia coerenti nel
disegno costituzionale così com’è stato concepito.
Non c’è dubbio
(e da qui nascono ogni volta le riserve dei governi e dei capi-partito)
che il referendum porta in sé quello che abbiamo chiamato il principio
di contraddizione democratica. Anzi i suoi critici condannano questa
potestà suprema ma saltuaria, intermittente, il carattere occasionale e
fluttuante delle maggioranze che ogni volta si formano nell’urna, la
riduzione della politica ad una logica binaria tra il sì e il no, la
semplificazione e la radicalità del contendere, la parzialità della
consultazione, la disomogeneità territoriale nella sensibilità ai
problemi che stanno alla base del quesito referendario, la mobilitazione
in negativo che deriva necessariamente dal voto per abrogare. Ma al
centro di tutto sta la questione fondamentale che si trovò davanti la
Costituente e che rimane viva, vale a dire la tensione tra gli istituti
di democrazia diretta e i loro titolari (i cittadini) e gli istituti che
derivano dalla democrazia rappresentativa, cioè le Camere, il governo, i
partiti costituiti in legittima maggioranza con la responsabilità
dell’esecutivo da un lato, e di guidare il processo legislativo
dall’altro. La risposta su questo punto non può che essere radicale,
assumendo l’obiezione per rovesciarla in nome delle ragioni in base alle
quali l’istituto referendario è entrato nell’ordinamento
costituzionale: il referendum è programmaticamente — si potrebbe dire
istituzionalmente — un elemento di disarmonia regolata e intenzionale
del sistema, a controllo di se stesso. Come disse ancora Mortati, certo
il referendum altera il gioco parlamentare semplicemente «perché il suo
scopo è proprio questo», nel presupposto democraticamente virtuoso di
condurre con questa alterazione «la volontà del Parlamento ad una
maggiore aderenza con la volontà politica del popolo». D’altra parte,
almeno dodici quesiti popolari non sono arrivati al voto proprio perché
davanti alla scadenza del referendum il Parlamento ha autonomamente
deciso di intervenire preventivamente, cambiando la legge.
Non si
tratta di contrapporre popolo e Parlamento, rappresentanti e
rappresentati. Ma di conservare coscienza di una costruzione del
meccanismo democratico che prevede una funzione di controllo e di
correzione dell’intervento legislativo sottoposta a specifiche
condizioni e tuttavia costituzionalmente autorizzata, con il beneficio
democratico di un occasionale trasferimento controllato di potere tra
governati e governanti e con l’articolazione della competizione politica
in forme diverse dalle elezioni generali: per temi specifici invece che
su programmi generali, con l’intervento esplicito di gruppi di
interesse e di pressione e di movimenti più che di partiti. Potremmo
parlare di un’integrazione dell’offerta politica e dei processi
decisionali, che in tempi di disaffezione non è poco.
Naturalmente
va ricordato che le storie dei sistemi politici e istituzionali non
sono tutte uguali e l’istituto referendario non è impermeabile a queste
vicende tra loro profondamente diverse. Non per caso (a parte la
partecipazione diretta del popolo prevista dalla Costituzione giacobina
del 1793) la prima traccia di consultazione popolare lasciata nelle
colonie britanniche in America alla fine del diciottesimo secolo e nelle
nascenti comunità cantonali svizzere nella stessa epoca continua a
produrre risultati in quei Paesi: 13,5 referendum all’anno in tre
decenni in California, mediamente, 10 quesiti all’anno nel medesimo
periodo in Svizzera. Si sa che il referendum è più adatto a sistemi
federali; si pensa che sia più consono a meccanismi di tipo
proporzionale, perché rompe il nodo consociativo delle indecisioni
politiche tra troppi partiti; si considera che l’abuso logori
l’istituto, com’è avvenuto in passato in Italia, dopo che il referendum
negli anni Settanta era stato clamorosamente l’apriscatole del sistema.
Tutto
vero, tutto legittimo. Soltanto, secondo me, non si spiega l’invito
insistito del premier Renzi e ieri ancora del ministro dell’Ambiente
Galletti a non andare a votare. Il quesito è controverso, gli
schieramenti classici sono saltati, gli stessi ambientalisti operano nei
due campi, la contesa è dunque non solo legittima, ma aperta.
Referendum strumentale, come dice il ministro? Tanto più, ci sarebbe
spazio per una battaglia di merito, sul contenuto e non sul contenitore,
non sull’istituto ma sui temi in questione, dal rapporto tra energia e
territorio all’ambiente, al lavoro, alla crescita, alla sostenibilità,
all’occupazione. Invitare a non votare è un’abdicazione della politica,
come se non credesse in se stessa. Anche perché l’astensionismo invocato
oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie
esauste, appagate dalla loro vacuità, incapaci di essere all’altezza
delle premesse su cui sono nate.