Repubblica 11.4.16
Il mio Che Guevara eroe senza averne l’aria
Rodolfo Walsh racconta i suoi incontri con il rivoluzionario “Controllava la sua vanità come controllava l’asma”
Aveva un carattere freddo e scostante ma era tra gli uomini più amati di Cuba
Parlava di sé e delle sue ritirate, però non indietreggiava mai di fronte al pericolo
di Rodolfo Walsh
Pubblichiamo un articolo di Rodolfo Walsh tratto da Il violento mestiere di scrivere (la Nuova frontiera pagg. 224, euro 12,50)
Per
chi suona la campana? Suona per noi. Non riesco a pensare a Guevara, da
questa lugubre primavera di Buenos Aires, senza pensare anche a
Hemingway, a Camilo, a Masetti, a Fabricio Ojeda, a tutte quelle
meravigliose persone che si trovavano all’Avana o che passarono di lì
nel ’59 e nel ’60. La nostalgia si traduce in un rosario di morti e mi
vergogno un po’ a stare qui seduto davanti alla macchina da scrivere,
pur sapendo che anche questo è una sorta di destino, come se ci si
potesse consolare all’idea che sia un destino utile a qualcosa.
Rivedo
Camilo, una domenica mattina, che vola basso su un elicottero sopra la
spiaggia di Coney Island, si sporge e ride a crepapelle e la folla sotto
che si diverte con lui. Sento il vecchio Hemingway, all’aeroporto di
Rancho Boyeros, dire queste parole quasi definitive: «Vinceremo, noi
cubani vinceremo». E davanti al mio stupore: « I’m not a yankee, you
know».
Rivedo continuamente Masetti nelle notti di Prensa Latina,
quando bevevamo mate e ascoltavamo tango, ma il tema ricorrente era
quella rivoluzione così indispensabile, anche se oggi sembra così dura,
così vestita del sangue delle persone che abbiamo ammirato o
semplicemente amato.
A Prensa Latina non sapevamo mai quando sarebbe
arrivato il Che, capitava lì senza annunciarsi e l’unico segno della sua
presenza nell’edificio erano due contadini con la gloriosa divisa della
sierra e la mitraglietta spianata, uno si piazzava accanto
all’ascensore, l’altro davanti allo studio di Masetti. Non so bene
perché, ma davano l’impressione che avrebbero dato la vita per Guevara e
che quando fosse successo, non sarebbe stato facile.
Molti sono
stati più fortunati di me e hanno parlato a lungo con Guevara. Sebbene
non fosse impossibile e nemmeno tanto difficile, io mi sono limitato ad
ascoltarlo, due o tre volte, mentre parlava con Masetti. Avrei voluto
fare delle domande ma non mi andava di interromperlo o forse le domande
trovavano risposta prima che le formulassi. Lo ascoltavo raccontare ciò
che aveva provato l’unica volta che aveva visto Frank País: solo ora
posso puntualizzare che i suoi occhi mostravano immediatamente un uomo
posseduto da una causa e che quell’uomo era un essere superiore. Io
leggevo i suoi articoli su Verde Olivo, lo ascoltavo in TV: sembrava
abbastanza, perché Che Guevara era un uomo coerente. I suoi scritti
parlavano con la sua voce, e la sua voce era la stessa su carta o tra
due mate in quell’ufficio del Retiro Médico. Credo che gli abitanti
dell’Avana ci abbiano messo un po’ ad abituarsi a lui, al suo carattere
freddo e scostante, così porteño, che doveva sembrare loro come un
acquazzone. Quando l’hanno capito, è diventato uno degli uomini più
amati di Cuba.
Era la prima vittima del suo stesso carattere. Che io
ricordi, nessun comandante militare, nessun generale, nessun condottiero
ha mai descritto sé stesso mentre fugge in due occasioni. Durante la
battaglia di Bueycito, quando gli si bloccò la mitragliatrice davanti a
un soldato nemico che gli sparava da vicino, raccontava: «Il mio ruolo
in quella battaglia è stato scarso e per nulla eroico, dato che i pochi
colpi li ho affrontati con la parte posteriore del corpo». E riferendosi
all’imboscata di Altos de Espinosa: «In quello scontro, non ho fatto
altro che una “ritirata strategica”, a tutta velocità». Esagerava, tutti
sapevano quello che ha appena ricordato Fidel: che era difficile
portarlo via dai luoghi di maggior pericolo. Controllava la sua vanità
proprio come domava l’asma. In questa rinuncia alle passioni estreme,
c’era il germe dell’uomo nuovo di cui parlava.
Guevara non si
presentava come un eroe; o almeno, poteva essere un eroe alla portata di
tutti. Ma, ovviamente, per gli altri non era così. La sua statura
morale era spiazzante: a volte era più facile rinunciare che seguirlo, e
lo stesso avveniva con Fidel e con la gente della Sierra. Questo poteva
metterci in crisi, e questa crisi acquista ora la sua forma definitiva,
dopo i fatti in Bolivia.
In parole povere: per molti di noi è
difficile rifuggire la vergogna, non di essere vivi – perché non è il
desiderio di morire, ma il suo contrario, la forza della rivoluzione –
ma che Guevara sia morto con così pochi intorno a lui. È vero, non
sapevamo, ufficialmente non sapevamo niente, ma alcuni di noi
sospettavano, temevano. Siamo stati lenti, colpevoli? Inutile discuterne
ora, ma questo sentimento che descrivo rimane, almeno per me, e forse
sarà un nuovo punto di partenza. L’agente della CIA che secondo
l’agenzia Reuters a Valle Grande ha affrontato un centinaio di
giornalisti che pretendevano di vedere il cadavere, ha detto questa
frase: «Awright, get the hell out of here». Questa frase, con il suo
segno, la sua impronta, il suo marchio criminale, passerà alla storia. E
anche la sua necessaria risposta: in questo continente qualcuno prima o
poi se ne andrà al diavolo. E non sarà il ricordo del Che. Che ora si
diffonde in centinaia di città consegnato al cammino di chi non l’ha
conosciuto.