Corriere 11.4.16
La più sola delle Brontë
Ipersensibile, devota alla sorella Emily, Charlotte non amava «Cime tempestose»
Il 21 aprile 1816 nasceva in Inghilterra la futura autrice di «Jane Eyre», figlia di un pastore protestante di origine irlandese
La storica biografia di Elizabeth Gaskell uscita per Castelvecchi dà conto di una figura complessa e contraddittoria
di Pietro Citati
La
canonica di Haworth, nello Yorkshire, dove abitarono le sorelle Brontë,
sorgeva dirimpetto a una piccola chiesa, vicino a un cimitero e a un
giardino. La casa era di pietra grigia, a due piani, con un tetto di
lastre pesanti, le sole capaci di resistere ai venti che giungevano dai
quattro estremi dell’orizzonte, infuriando violentemente sulle «cime
tempestose». Il vasto cimitero si trovava al di sopra della casa. Da
ogni parte c’erano tombe. Chi entrava nella chiesa trovava le lapidi
murali di Maria Brontë, morta a trentanove anni, della figlia Maria,
morta a dodici anni, di Patrick Branwell Brontë, morto a trent’anni, di
Emily Brontë, morta a ventinove anni, di Anne Brontë, morta a ventisette
anni, e di Charlotte Brontë, morta — ultima — a trentanove anni.
Tutto
era morte e ordine. «Non credo — scrisse Elizabeth Gaskell nella
bellissima Vita di Charlotte Brontë , scritta nel 1857 e pubblicata
dall’editore Castelvecchi, di aver mai visto un luogo più squisitamente
pulito, e ordinato con maggior precisione. La vita vi si svolge col rito
di un cronometro. Nessuno si reca in quella casa: nulla disturba il
ticchettio dell’orologio della cucina, il ronzio di una mosca nel
soggiorno». Sopra la canonica, in alto, c’era la brughiera: l’erica, ora
di un fiammeggiante color porporino, ora rovinata dai temporali. I sei
bambini Brontë vi si avventuravano stringendosi per mano: sopratutto
Emily, la futura autrice di Cime tempestose , amava appassionatamente la
brughiera.
Charlotte Brontë nacque, dopo Maria ed Elizabeth, il 21
aprile 1816: poi, in breve tempo, Patrick Branwell, Emily ed Anne. Dopo
la nascita di Anne, la salute della madre cominciò a declinare: non
chiedeva di vedere i bambini, perché sapeva di doverli lasciare presto:
morì nel settembre 1821; e la vita di quei bambini silenziosi si fece
ancora più quieta e solitaria. Il padre, curato, svolgeva i suoi compiti
ecclesiastici nel villaggio. Era irlandese e cercava invano di
controllare la propria indole furiosa.
I bambini non erano abituati
alle gioie infantili: non cercavano compagni; e si tenevano stretti gli
uni agli altri. Charlotte era brillante e vivace: la più chiacchierina
tra le quattro sorelle; proteggeva maternamente soprattutto Emily, che
aveva diciotto mesi meno di lei. Cuciva fino alle nove di sera: poi
riponeva il lavoro, spegneva le candele; e cominciava a passeggiare su e
giù per la stanza: avanti e indietro, avanti e indietro, a tratti
illuminata dal fuoco del camino, e poi riassorbita dall’ombra. Con le
sorelle parlava delle difficoltà passate e delle preoccupazioni
presenti, e faceva progetti per il futuro. Negli anni successivi
discuteva gli intrecci dei loro romanzi.
Nel 1831 Charlotte era una
ragazza di quindici anni, molto minuta, «sottosviluppata», come diceva
di sé stessa: gli occhi erano grandi, color bruno bruciato, sebbene
l’iride avesse molte sfumature. Aveva un’espressione di quieta
intelligenza. Ogni tanto splendeva, come se una lampada spirituale si
fosse accesa in lei. Andò in un educandato: poi fece la governante;
mestiere che detestava. Un’amica disse: «La vidi per la prima volta
mentre usciva da una carrozza chiusa, vestita di abiti molto antiquati,
con un’aria infreddolita e infelicissima». Aveva l’aspetto di una
vecchia; ed era così miope che muoveva il capo di qua e di là per
seguire le lettere dei libri.
Era timidissima e nervosa: qualsiasi
piccolo evento e ostacolo provocava in lei un violento mal di capo o un
conato di vomito; tremava a ogni rumore improvviso, reprimendo un grido
se qualcosa la faceva trasalire. Quando le ragazze dell’educandato la
invitarono a giocare a palla, rispose che non sapeva giocare. Disegnava
bene e rapidamente: composizioni fantastiche, a cui forse faceva difetto
la capacità di esecuzione. Adorava il duca di Wellington. Non perdeva
un minuto di tempo, rimpiangendo le ore concesse al gioco. Non aveva
speranza né fiducia nel futuro. Mai, mai, a nessun costo, si inorgogliva
di sé stessa. «La mia vita — scrisse ad un’amica — trascorre in una
ininterrotta monotonia: null’altro se non insegnare e insegnare, dalla
mattina alla sera».
Leggeva moltissimo. Amava Walter Scott e
Wordsworth. Leggere la Bibbia suscitava in lei una sensazione soave.
Aveva una profonda diffidenza e quasi disprezzo per Jane Austen: vi
trovava visi comuni, giardini chiusi da alte staccionate, bordure
impeccabili; ma «nessun schizzo di una brillante e vivida fisionomia,
nessun suono di aperta campagna, non aria aperta, non azzurre colline,
nessun bel ruscello. Non mi piacerebbe davvero vivere con le sue signore
e i suoi gentiluomini, nelle loro eleganti e appartate dimore. Miss
Austen è solamente accorta e osservatrice. In lei non c’è poesia.
Aderisce al reale (al reale più che al vero), ma non può essere grande».
Contro di lei rivendicava i diritti, gli slanci, i furori della
fantasia: come diceva, l’invasamento. Molto presto cominciò a scrivere:
progettò un romanzo alla Richardson, in sette o otto volumi.
Le
sorelle Brontë cominciarono a morire: prima Maria, poi Elizabeth; così
Charlotte si trovò investita delle funzioni di padre e di madre. Insieme
a Emily progettò di aprire una scuola nella canonica, con un piccolo
numero di alunne. Poiché non sapeva bene il francese, andò a Bruxelles,
insieme a Emily, per apprenderlo, e acquistare qualche nozione di
tedesco e di italiano. Vi rimase a lungo, nella scuola di Monsieur
Héger. Le due sorelle sedevano nell’ultima fila della classe, così
assorbite nello studio da non percepire il minimo rumore e movimento. Si
strinsero l’una all’altra, tenendo lontane le ragazze belghe e
soffrendo la nostalgia dell’esilio. Charlotte scrisse in francese un
ritratto di Pietro l’Eremita, e racconti dell’Antico Testamento: Emily
preferì Harold alla vigilia della battaglia di Hastings. Entrambe
detestavano il cattolicesimo: il cerimoniale della Messa cattolica, il
«papismo».
Nel gennaio 1843 Charlotte tornò a Bruxelles da sola, come
insegnante nella scuola di Monsieur Héger. Aveva la responsabilità di
una classe di studentesse. Emily rimase a Haworth. Charlotte era malata:
la cattiva salute era accompagnata da una profonda depressione nervosa.
Non riusciva a imporre la sua autorità alle allegre e ottuse scolare.
D’inverno aveva i piedi rossi e gelati. «Qui — scrisse a Emily — vado
avanti giorno dopo giorno, in un certo modo sola alla Robinson Crusoe,
ma non importa». In francese scrisse un testo Sulla morte di Napoleone .
Decise
di restare a Bruxelles nei mesi successivi. Durante le vacanze del 1843
rimase sola nella scuola. Trovava faticosi tanto il giorno quanto la
notte: una febbre nervosa si impossessò di lei: non riusciva a dormire;
tutto quanto era accaduto di spiacevole durante il giorno si
ripresentava con un rilievo esasperato alla sua fantasia sconvolta. Ogni
timore riguardo ai suoi cari diventava terribilmente reale. «Il giorno —
scrisse a Emily — sono lasciata assolutamente sola, in quattro desolate
e vaste classi vuote a mia intera disposizione: tento di leggere, tento
di scrivere, ma invano». Aggiunse: «È domenica mattina: tutti quanti
sono andati a quella loro Messa idolatra».
Verso la fine del 1843, Charlotte decise di tornare a casa.
Il
2 gennaio 1844 rivide la tragica monotonia della Canonica. Trovò Emily
ammalata, il viso pallido, il corpo assottigliato, con le forze che
venivano meno. Non era mutata: il suo spirito libero, selvaggio,
indomabile non si sentiva a proprio agio che nelle solitarie pendici di
erica attorno alla casa. Non veniva mai a contatto con gli altri: non
accettava influenze; la sua unica legge era quanto le sembrava giusto.
Aveva una mente logicissima, dominata da una volontà caparbiamente
tenace. Non amava gli uomini: riservava il proprio amore agli animali, e
specialmente al suo cane, Keeper. Nessuno aveva l’ardire di parlarle
quando i suoi occhi si accendevano, il viso si sbiancava e le labbra si
serravano rigidamente.
Nel dicembre 1847 Emily pubblicò Cime
tempestose , il capolavoro della famiglia Brontë. Con la sua fantasia
cupa e allucinata, con la sua ispirazione alta e sobria, con la sua ala
che varcava superbamente le voragini e le tempeste, Emily parlava del
male assoluto e del peccato, senza mai avvilirsi. Il peccato tremendo,
senza speranza, senza salvezza, raggiungeva nel suo libro una grandezza e
nobiltà come soltanto in un libro scritto pochi anni dopo: La lettera
scarlatta di Hawthorne. Charlotte non amò Cime tempestose , né allora né
quando, anni più tardi, lo rilesse. Trovò «immatura» quell’opera
meravigliosamente compiuta ed eseguita. «La forza di Cime tempestose —
scrisse — mi colma di rinnovata ammirazione: tuttavia sono oppressa: al
lettore non viene quasi mai concesso di gustare un piacere puro; ogni
raggio di sole si fa largo tra nere sbarre di nubi massicce; ogni pagina
è sovraccarica di una specie di elettricità morale».
Presto Emily
lasciò il mondo. Giorno dopo giorno, vedendo con quale stoicismo la
sorella affrontava il dolore, Charlotte la osservava con una meraviglia
piena di angoscia. Non aveva mai conosciuto una creatura che le fosse
paragonabile. Era — pensava — della famiglia dei Titani: una pronipote
dei Giganti, che in un remotissimo passato avevano abitato la terra.
Provvedeva agli altri con estrema sollecitudine, senza la minima
indulgenza con sé stessa. Il suo spirito era inesorabile verso la carne.
Dalle mani tremanti, dalle membra spossate, dagli occhi sempre più
appannati, Emily esigeva lo stesso impegno di quando era sana.
Alla
fine del novembre 1848 non c’era più speranza. Il viso era scarnito,
devastato: la tosse secca era incessante; al minimo sforzo, il respiro
ansimava.
Quando Charlotte chiamò un medico, Emily rifiutò di
riceverlo. Quando le fu portata una medicina, rifiutò di prenderla,
negando di essere malata. Infine, il primo dicembre 1847, disse a
Charlotte: «Se vuoi far venire un dottore, ora lo riceverei». Era troppo
tardi. Verso le due del 2 dicembre morì. Il giorno dopo Charlotte
scrisse: «Emily non soffre più di dolore. Non soffrirà mai più in questo
mondo. È morta. Non c’è più Emily nel tempo, sulla terra, ormai. Ieri
abbiamo deposto quietamente la sua povera spoglia terrena sotto il
pavimento della chiesa. Siamo molto calmi. Perché dovrebbe essere
altrimenti? L’angoscia di vederla soffrire è passata; lo spettacolo
della morte è finito; il giorno del funerale è alle nostre spalle. Sento
che è in pace». Il cane di Emily, Keeper, accompagnò il funerale,
rimanendo quieto per tutto il tempo del servizio funebre: poi andò ad
accucciarsi davanti alla porta della camera della sua padrona. Per anni,
Charlotte non si stancò di parlare di Emily: era diventata, per lei,
«un’idea fissa, più cupa, più ostinata che mai».
La morte non aveva
finito di visitare Haworth. L’ultima sorella, Anne, si ammalò, sebbene
in apparenza di una malattia che non aveva nulla di terribile. Il 24
maggio 1849 fu portata al mare, a Scarborough, dove morì quattro giorni
dopo. Charlotte ritornò nella Canonica. La grande prova cominciava
quando cadeva la sera. In quell’ora le sorelle si riunivano nella sala
da pranzo, e parlavano tra di loro. Ora Charlotte sedeva sola, in un
forzato silenzio, nella stanza vuota, udendo il pendolo che scandiva il
silenzio. Porgeva l’orecchio all’eco di passi che non sarebbero mai più
venuti, ascoltando la voce del vento.
Scriveva romanzi, il più noto
dei quali è Jane Eyre . A volte passavano settimane, perfino mesi, prima
che sentisse di avere qualcosa da scrivere. Poi una mattina si alzava
avendo in mente, chiaro e luminoso, il seguito del racconto. Si sentiva
invasata, come diceva. Ma non trascurava, nemmeno un istante, i suoi
doveri domestici: a volte interrompeva i suggerimenti dell’ispirazione
per andare a spelare patate in cucina. Scriveva per ore e ore con una
grafia minuta, vicino al camino acceso. Teneva un quadernetto
all’altezza degli occhi, tracciando a lapis la prima stesura.
Negli
ultimi anni di vita andava spesso a Londra: «Una vera e propria
Babilonia», diceva. Dapprima si incamminava sgomenta per le vie
affollate, rimanendo a lungo ferma agli incroci, e disperando di
riuscire a procedere. Andò a teatro. Vide Il barbiere di Siviglia di
Rossini, «spettacolo brillantissimo, anche se, suppongo, vi sono cose
che mi sarebbero piaciute di più». Ammirò Kensington Garden: il prato
verde all’inglese, le morbide masse di foglie. Conobbe Thackeray: vide
il duca di Wellington, un «vecchio maestoso», che idolatrava. Nel 1851
visitò per cinque volte la Grande Esposizione al Palazzo di Cristallo:
«Uno spettacolo meraviglioso, eccitante, sbalorditivo — un misto di
palazzo dei geni e di grande bazar; ma non è molto nel mio genere».
Sebbene
avesse sempre rifiutato il matrimonio, nell’aprile 1851 Charlotte sposò
Arthur Bell Nichols, che nel 1845 era divenuto curato di Haworth: un
uomo grave, riservato, con un profondo senso della religione e dei suoi
doveri. La sua vita non mutò: sempre uniforme e monotona, più uniforme e
monotona — lei commentò — «di quanto dovrebbe essere». Col matrimonio
cessarono i suoi terribili mal di capo. Il marito era, per lei, «il più
affettuoso sostegno, il miglior conforto terreno». Nel marzo 1855 fu
assalita da un lento, vaneggiante delirio: chiedeva di continuo cibo e
perfino stimolanti. Il 31 marzo morì.