La Stampa TuttoLibri 9.6.16
Eppure si mosse, l’uomo del Medioevo
L’avventura di viaggiare, tra Marco Polo, mercanti e studenti e un Atlante sull’ancor giovane archeologia dell’era di mezzo
di Alessandro Barbero
Molti
 anni fa, quando ero studente universitario, una persona a cui raccontai
 che stavo per laurearmi in storia medievale commentò: «strana epoca, il
 Medioevo! La gente si è chiusa in casa e non è più uscita per mille 
anni». Fra i tanti tenaci luoghi comuni che impediscono la comprensione 
del mondo medievale, questo è forse il più inspiegabile. Il Medioevo non
 è solo l’epoca che ha visto Marco Polo arrivare in Cina: fin qui, si 
potrebbe obiettare che ad andare fin laggiù erano davvero in pochi 
(benché non fossero affatto poche, alla fine, le persone coinvolte nel 
lungo viaggio della seta e delle spezie che dall’estremo Oriente, per 
carovana e per mare, approdavano ai nostri porti). Il Medioevo è l’epoca
 in cui il Mediterraneo si riempie di navi e di commercianti, prima 
soprattutto arabi ed ebrei, poi, sempre più spesso, italiani; è l’epoca 
in cui convogli di cavalli e muli carichi di merci fanno la spola fra i 
porti mediterranei e le città del Nord; è l’epoca in cui innumerevoli 
cristiani si mettono in strada per andare in pellegrinaggio a 
Gerusalemme, a Roma, a Santiago, o almeno al santuario più vicino a 
casa.
Ma è anche l’epoca in cui i contadini emigrano in città, 
attirati dal boom edilizio e dall’industria del tessile. E’ l’epoca in 
cui gli studenti, per completare i loro studi, vanno a vivere per anni 
in lontane città, perché le Università sono poche, ma le famiglie che 
decidono di investire in una laurea sono sempre più numerose; e alcuni 
prendono gusto a una vita errabonda, tanto da essere battezzati, per 
scherzo ma non troppo, clerici vagantes. E’ l’epoca in cui i re e le 
loro corti anziché stare fermi in una capitale, concetto che non era 
stato ancora inventato, si spostano continuamente sul territorio del 
regno, perché tutti i sudditi possano vedere il re e convincersi che 
devono davvero ubbidirgli.
È questo il «mondo in movimento» 
rievocato da Maria Serena Mazzi nel suo In viaggio nel Medioevo. Ma c’è 
anche un altro senso in cui si può parlare di viaggio nel Medioevo: è il
 viaggio che gli archeologi ci invitano a compiere attraverso i resti 
materiali di quell’epoca. L’archeologia medievale è una scienza giovane,
 soprattutto in Italia. Solo da mezzo secolo si è riconosciuto che fare 
l’archeologo non significa necessariamente andare a scavare in Egitto o 
in Iraq, perché sotto le piazze delle nostre città, sulle nostre colline
 e nei nostri campi tutto un mondo aspetta di essere riportato alla 
luce, e con esso una gran quantità di informazioni che i documenti 
scritti, da soli, non ci permetterebbero di recuperare. Cinquant’anni 
sono abbastanza perché si possa tentare un bilancio: è questa la sfida 
di Andrea Augenti, memore dell’entusiasmo di Jacques Le Goff allorché, 
fra i primi, intuì le potenzialità della nuova disciplina: «Mi sembra di
 veder sorgere dal suolo un nuovo Medioevo...».
Il viaggio di 
Augenti si snoda lungo tutta la Penisola e attraversa mille anni, 
durante i quali, con buona pace di quel mio antico conoscente, la gente 
non è affatto rimasta chiusa in casa. Vede le città romane impoverirsi, 
gli edifici più maestosi degradarsi per mancanza di manutenzione, gli 
squatters installarsi nelle sale delle ville padronali, il legno 
sostituirsi al mattone come materiale da costruzione. E poi, con la 
ripresa che comincia da Carlo Magno e accelera dopo il Mille, l’apertura
 di innumerevoli cantieri, la costruzione di nuove cerchie murarie che 
non bastano mai a contenere l’esplosione della popolazione: la Firenze 
romana copriva 21 ettari, le mura costruite dal comune nel XII secolo ne
 racchiudono 85, quelle riedificate al tempo di Dante ben 436! Dopo le 
città, il viaggio attraversa le campagne, con le tenute dei senatori 
romani via via abbandonate, le case contadine dai tetti di tegole che 
con l’arrivo dei barbari lasciano il posto alle capanne dai tetti di 
paglia, e i villaggi che migrano dalla pianura malarica alle colline, e 
poi, intorno al Mille, la nuova edilizia dei signori, i castelli: fatti 
dapprima di terra e legname, poi di pietra e di mattoni. L’autore ci 
accompagna nei cimiteri, a visitare le tombe che dai suburbi si spostano
 nelle chiese cittadine quando i cristiani decidono che convivere con i 
morti non è più un tabù. In certi casi, ma non sempre, quei morti sono 
sepolti con interi corredi di armi e gioielli, e gli archeologi si 
interrogano: è perché quelle sono le sepolture dei barbari, o è perché è
 cambiata la cultura del paese e dei suoi abitanti, per cui trovare un 
uomo sepolto con una spada non significa affatto che sia un longobardo?
Il
 viaggio torna ripetutamente in luoghi emblematici, che dovrebbero 
diventare sempre più importanti nella geografia ideale del nostro paese,
 anche dal punto di vista della valorizzazione turistica: come la 
favolosa Crypta Balbi in via delle Botteghe Oscure a Roma, un luogo 
magico in cui si danno la mano l’antichità e il Medioevo, in cui il 
visitatore si sposta fisicamente attraverso i secoli, calpestando pietre
 che raccontano la continuità e il cambiamento, e l’incessante, ostinata
 attività dell’uomo. Non un luogo di tesori come la tomba di 
Tutankhamon, ma un luogo di officine, laboratori, latrine: la vita vera 
della gente comune, proprio quella di cui vanno a caccia gli archeologi 
del Medioevo.
 
