La Stampa TuttoLibri 9.6.16
Charlotte Brontë
Tempeste di passioni dietro la quiete
La maggiore delle sorelle è sempre stata considerata docile fu invece forte, temeraria, e usò la letteratura come un’arma
di Lyndall Gordon
«Donne
schive, riservate», così Charlotte Brontë descrisse le sorelle (e
implicitamente se stessa) in una nota biografica stilata per la
prefazione alle loro opere pubblicate postume: «un’esistenza trascorsa
in disparte ha conferito loro modi e consuetudini improntati alla
timidezza».
Ma accanto a questa appropriata immagine ottocentesca
di signore beneducate c’è la vita segreta delle scrittrici, in cui (ci
assicura Charlotte) riposa «un potere e un fuoco nascosto».
Agli
occhi dei contemporanei superficiali le sorelle non erano niente.
«Un’istitutrice privata non ha un’esistenza», scrisse Charlotte a Emily
nel 1839, quando lavorava per la signora Sidgwick, la quale aveva
sistemato la governante al piano della servitù della sua dimora di
Skipton, in Yorkshire. Quando gentiluomini e gentildonne posavano lo
sguardo su un’istitutrice «pareva che fissassero il vuoto», disse Anne,
che era stata licenziata nello stesso anno dal suo posto presso la
famiglia Ingham.
Ma questo vuoto apparente fu lo spazio che le
sorelle ricavarono per se stesse; lì, protetta dall’oscurità, la
personalità di Charlotte Brontë prese forma. Le sue coperture si
prendono gioco di noi: lo pseudonimo, privo di genere, Currer Bell e la
figura dell’autrice minuta e dimessa che alla fine comparve a Londra a
braccetto con il suo editore. La sua amica e prima biografa, la
scrittrice Elizabeth Gaskell, ci ha restituito un ritratto impregnato di
pathos: una donna modesta, schiava del proprio dovere, che soffre
all’ombra delle lapidi per la prematura morte dei cinque fratelli.
Questo non significa che Elizabeth Gaskell non ci abbia trasmesso una
grande verità su Charlotte Brontë. Ma è soltanto una mezza verità. La
sua Charlotte, vista attraverso gli occhi compassionevoli di una
contemporanea, sarà sempre con noi. Gaskell fu fedele alla donna che era
apparsa in pubblico, ma dov’è la donna forte e temeraria che, dopo la
pubblicazione di Jane Eyre (1847), disse: «ce ne vuole per abbattermi»?
Nel
mio libro intendo portare alla luce l’altra metà della verità, quello
che Charlotte chiamava «il mio carattere domestico», che condivise con
le sorelle: la sua voce acida, sarcastica; il suo fuoco creativo; il suo
spirito e il suo umorismo; la sua determinata professionalità – che la
portò a mettere la letteratura al centro della propria vita. Le sorelle
morirono mentre stava scrivendo il suo romanzo femminista, Shirley
(1849). Per quanto sofferente, il 21 settembre 1849 riuscì a scrivere al
suo editor, William Smith Williams: «La facoltà dell’immaginazione mi
ha tirato su quando stavo affondando, tre mesi fa; da allora il suo
costante esercizio mi ha tenuta con la testa sopra il livello
dell’acqua: il suo risultato ora mi rallegra...».
Elizabeth
Gaskell separò la donna dalla scrittrice. Per ricongiungerle dobbiamo
esplorare gli angoli invisibili della sua storia. Samuel Johnson,
eminente biografo del diciottesimo secolo, ha detto: «Ci sono molte
circostanze invisibili le quali sono molto più importanti dei pubblici
affari». Per individuare il volto nascosto di Charlotte Brontë non
dobbiamo solo andare in cerca del suo carattere domestico, ma anche
esporre i buchi e le discontinuità della sua esistenza. Disponiamo di
eccellenti e complete biografie che ci hanno fornito tutti i dati
esteriori. Il mio interesse è rivolto però alla storia complementare
della vita interiore e creativa. Questo genere di biografia pone la
questione di quando ebbe inizio la sua spinta creativa – vale a dire: da
dove trasse la straordinaria voce di Jane Eyre?
Una traccia si
ritrova in una lettera che scrisse nel marzo del 1837 al poeta Robert
Southey. Gli aveva inviato le sue poesie nella speranza di essere
«conosciuta per sempre». Lui aveva risposto ammonendola che «la
letteratura non può essere l’occupazione della vita di una donna, non
deve esserlo». La brillante manovra della sua apparente sottomissione a
Southey, cui assicurò che avrebbe smesso di scrivere, fu la prima
performance pubblica di un ruolo che avrebbe fatto proprio, nascondendo
un’audace vita creativa dietro la maschera della perfetta docilità.
Maneggia le parole come lame con cui intaglia la caricatura
dell’obbedienza femminile, rispondendo all’ingiunzione del poeta
laureato che riservava la creatività ai soli uomini. Questa voce
controllata ne nasconde una in contraddizione con l’immagine
ottocentesca di una signora delicata e priva di passioni.
Non fu
affatto priva di passioni. Gaskell oscurò quella che provò per il suo
professore belga, Constantin Héger. L’esatta natura della loro relazione
resta controversa. Non corrisponde alle solite categorie di
infatuazione o storia. Cruciale, persino inebriante fu per Charlotte che
egli fosse il suo mentore, un uomo che desiderava davvero che
scrivesse, e che sembrava intenzionato a conoscerla per quella che lei
stessa sentiva di essere.
Attraverso un’esile costruzione
letteraria, mette a nudo la propria anima con Héger: «Milord, je crois
j’avoir du Génie». Si intravede qui una relazione che ruota attorno alla
libertà di parola assicurata dal maestro (in contrasto con
l’intimazione al silenzio di Southey).
Se Charlotte Brontë poté
presentare nei suoi romanzi la figura ingrandita del suo insegnante fu
grazie alla distanza e alla natura ideale della loro relazione. La sua
fu una corrispondenza di fantasia, simile a un atto dell’immaginazione.
Dover immaginare la passione, piuttosto che viverla, fu in realtà un
vantaggio per lei, in quanto scrittrice, perché le consentì di
concepirla dal punto di vista di una donna.
La Charlotte Brontë che amava «camminare invisibile» scioccò i vittoriani dando vita a donne romanzesche giudiziose e impetuose.
La
voce che intonò, energica al punto che alcuni la reputarono poco
femminile, persino «volgare», avvinse chi aveva orecchie per intendere,
come la futura romanziera George Eliot, che esclamò: «Che passione, che
fuoco in lei!». I suoi personaggi sono così vicini che ancora oggi
sentiamo battere i loro cuori.
Traduzione di Nicola Vincenzoni