La Stampa 9.4.16
La Chiesa non condanna il peccatore
di Enzo Bianchi
Ritengo
sia lo stile e l’impianto generale l’aspetto più importante nel
valutare a caldo un testo di 250 pagine riguardo al quale molti,
nell’opinione pubblica dentro e fuori la chiesa, parevano interessati
solo alla presenza o meno di poche righe su un paio di problematiche
specifiche.
Ed è anche l’aspetto più originale per un documento
papale, come già ci aveva abituato papa Francesco con la Evangelii
gaudium e la Laudato si’. Frutto dell’ascolto e del discernimento da
parte del Papa dei dibattiti e dei testi emersi da due sinodi dei
vescovi che hanno ritrovato la loro natura di dialogo franco e fraterno,
l’esortazione «sull’amore nella famiglia» riprende e approfondisce il
paziente lavoro, proprio dei pastori.
«È comprensibile – annota
papa Francesco – che non ci si dovesse aspettare dal sinodo o da questa
esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico applicabile a
tutti i casi» ma, piuttosto, «un nuovo incoraggiamento a un responsabile
discernimento personale e pastorale dei casi particolari» (§ 300). Così
essa appare come il primo documento del magistero papale rivolto alla
Chiesa universale presente ovunque nel mondo che non consegna un
messaggio globalizzato, ma che tiene conto delle diversità delle aree
culturali e della complessità degli itinerari di umanizzazione percorsi
dai popoli. Il messaggio del vangelo richiede sempre di essere
inculturato, come lo è stato già nei primi secoli: la Chiesa
nell’annunciarlo deve quindi essere attenta alle tradizioni, alle sfide,
alle crisi presenti nei diversi luoghi. Non ci sono infatti solo «segni
dei tempi», ma anche «segni dei luoghi» da discernere con sapienza e
impegno, perché in ogni cultura e nel suo evolversi sempre permangono
dei semina verbi, la parola di Dio a livello di seme.
In
quest’aria nuova, che si arricchisce di contributi provenienti
dall’intera cattolicità, due convinzioni evangeliche sembrano orientare
l’intera riflessione: il primo è che non ci sono cristiani «irregolari» e
cristiani cosiddetti «giusti», ma che tutti sono chiamati costantemente
a convertirsi e a ritornare al loro Signore. L’altro è che «nessuno può
essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del
Vangelo!» (§ 297). Ecco il cuore ardente che dovrebbe irrorare tutte le
considerazioni di fronte all’avventura del matrimonio, alla realtà non
sempre riuscita delle storie d’amore e della vita familiare e, più in
generale, della vita umana e cristiana: «la logica del Vangelo». Le
diverse situazioni, le singole persone, le stagioni culturali e i segni
dei tempi, le sofferenze e gli errori, le fatiche e le incomprensioni,
ma anche gli slanci generosi e la paziente fedeltà quotidiana, tutto
dovrebbe essere riletto secondo «la logica del Vangelo».
È in
questa ottica che papa Francesco chiede alla chiesa tutta di avere lo
sguardo di Gesù anche sulle diverse situazioni dette «irregolari»
(termine che non piace al Papa) o non conformi alla volontà di Dio: uno
sguardo che non condanna in modo definitivo perché solo il Signore potrà
giudicare nel giorno della sua venuta il peso delle responsabilità di
ciascuno e la sua colpevolezza. La Chiesa non è autorizzata neppure a
dichiarare qualcuno «in stato di peccato mortale», privo della grazia di
Dio che può santificare anche chi oggettivamente vive una situazione
contraddittoria al vangelo. Sì, come Gesù così la Chiesa giudica il
peccato, condanna il peccato ma non condanna e non giudica in modo
definitivo il peccatore. Ogni persona che pecca resta più grande del
peccato commesso.
Allora il capitolo ottavo, che tenta di leggere
le diverse contraddizioni – presenti nel mondo e nella vita cristiana
stessa – al disegno divino sul matrimonio, offre novità di accenti ai
quali il popolo cristiano non è abituato. Nella consapevolezza che
tutti, anche i cristiani, restano peccatori per tutta la vita perché
«non è il bene che vogliono fare che fanno, bensì il male che non
vogliono» (come confessa per sé san Paolo nella Lettera ai Romani) la
Chiesa non può far altro che annunciare la misericordia, non a basso
prezzo, non svuotando la grazia, ma operando un discernimento e aiutando
i cristiani a fare essi stessi discernimento attraverso la loro
coscienza. Va riconosciuto: mai in nessun documento magisteriale si era
giunti a evidenziare in modo così chiaro il ruolo della coscienza, una
coscienza formata, che sa ascoltare la parola di Dio e i fratelli, ma
una coscienza che è istanza centrale e ultima, patrimonio di ciascuno
come luogo della verità cercata sinceramente. In questa prospettiva cade
ogni muro tra giusti e ingiusti, tra peccatori manifesti e peccatori
nascosti, e tutti stiamo come disobbedienti sotto il giudizio di Dio. E
da questa operazione di discernimento, compiuta in modo serio,
impegnato, ecclesiale, si potrà anche in casi personali particolari
valutare l’eucaristia come alimento per i deboli, mendicanti dell’amore
di Dio, e non premio per i giusti.
Questo e non altro mi sembra
vogliano dire le ponderate e sapienti parole usate da papa Francesco per
ricordare la logica del Vangelo e per narrare una sollecitudine che è
quella di Gesù verso i suoi discepoli, tutti «duri di cuore e lenti a
credere», tutti bisognosi di una misericordia più grande del loro
pensare umano, più equa di ogni giustizia, più feconda di ogni rigidità.
In
modo sintetico e lapidario potremmo affermare che con questa
esortazione papa Francesco ha reso «gioiosa notizia», evangelo, la
coppia, la sessualità, il matrimonio, la famiglia e la fedeltà. Chi
temeva che il Papa cambiasse la dottrina o contraddicesse la grande
tradizione cattolica e ha diffidato del suo magistero e dei sinodi, deve
ricredersi radicalmente. Quello che è mutato, infatti, è lo sguardo
della Chiesa: è caduta ogni visione cinica e angosciata della sessualità
e l’annuncio dell’amore tra uomo e donna ha ripreso il suo splendore di
verità senza abbagliare. Certo, questo testo spiacerà ai «giusti
incalliti», a quelli che il Vangelo denuncia come sedicenti «vedenti» ma
che in realtà sono «ciechi». Attirerà invece a Cristo, medico delle
vite umane, quelli che si sanno peccatori, umiliati dai loro peccati,
bisognosi della misericordia del Signore. La santità, infatti, non è una
virtù che sta dietro a noi e che smarriremmo andando avanti, il cammino
della santità è davanti a noi: è il cammino in cui, passo dopo passo,
diventiamo più capaci di amare e di essere amati.