martedì 5 aprile 2016

La Stampa 5.4.16
Crisi economica e corruzione
Brasile diviso sulla fine di Dilma
Impeachment più vicino per la presidente mollata dagli alleati La borghesia in festa, Lula e gli intellettuali difendono la leader
di Emiliano Guanella

Davanti al televisore, pronti con una padella e un mestolo in mano. Appena il «Jornal Nacional», seguitissimo tg serale della Rede Globo, mostra i discorsi di Dilma Rousseff ci si fionda alla finestra e si fa rumore. È la protesta della classe media che chiede l’impeachment della presidente.
Nel frattempo Lula da Silva, l’ex presidente e mentore politico di Dilma percorre il Nord-Est del Paese e riempie le piazze «contro il golpe» e in difesa del governo: «La riscossa del Brasile povero», l’hanno chiamata, in una battaglia che sta dividendo un Paese tradizionalmente lontano dalla politica, ma che sta vivendo una stagione inedita sullo sfondo della peggiore crisi economica degli ultimi 25 anni.
La popolarità di Dilma è bassissima, per gli scandali di corruzione, ma anche per la crisi di un sistema che si è inceppato da tempo. Politica, economia, giustizia, tutto legato e chiuso nel rebus di Dilma che cade o che resta in sella, dicotomia che divide la popolazione, provoca tensioni in famiglia, litigate sui social media, cortei e molta incertezza.
Da tre anni il Brasile non cresce più, il lavoro manca. Per il governo è colpa della crisi internazionale, della Cina che non compra come faceva un tempo. Per la gente in strada che protesta con le pentole in mano l’origine dei mali è la corruzione scoperchiata dalla maxi inchiesta del giudice Sergio Moro che ha colpito soprattutto il Partito dei Lavoratori di Dilma e Lula. Una strana coppia, unita nei momenti difficili, ma mai innamorata. Lula scelse Dilma come sua erede nel 2010, quando aveva una popolarità enorme e con un Paese che cresceva ancora. Era l’unico nome spendibile in un partito decimato dal penultimo scandalo, il «mensalao», compravendita di deputati dell’opposizione. Dilma testarda, spigolosa, ha imbarcato alleati dalla dubbia fedeltà in un Parlamento-bolgia con 26 partiti, dove il gattopardismo è talmente comune che esiste una finestra di un mese all’anno dove è possibile cambiare di casacca, fondare nuove sigle, passando da destra a sinistra al centro. Partiti-fisarmonica e lobby trasversali a difesa degli interessi di evangelici, produttori di armi, fazenderos rurali, dirigenti di calcio e così via.
È questo Congresso, con un 30% di inquisiti e il 10% di condannati, che dovrà decidere, fra non più di due settimane, se aprire o no il processo politico a Dilma, accusata di aver truccato i bilanci dello Stato nel 2014 per nascondere dei gravi buchi finanziari della sua gestione. Ieri i suoi avvocati hanno esposto la difesa ufficiale; quegli ammanchi sono stati una scelta obbligata per poter garantire la continuità di decine di milioni di programmi assistenziali. Un sacrificio necessario, un errore contabile, nulla di più.
A Brasilia si contano i voti e si offre di tutto e di più per la fedeltà o il tradimento alla Corona. Lula opera dietro le quinte, dopo che la sua nomina a Capo di Gabinetto è stata congelata dalla giustizia. Nel suo quartier generale di una suite d’albergo a sette chilometri dal Palazzo presidenziale di Planalto passano deputati ed emissari; dopo le intercettazioni diffuse dal giudice Moro, che ha dovuto scusarsi di fronte alla Corte Suprema che le ha giudicate improprie, nessuna si fida più a parlare al telefono.
L’ultimo pallottoliere dava 261 deputati favorevoli all’impeachment e 117 contrari; 135 sono indecisi, accettano proposte. Il governo deve arrivare a quota 172, un terzo dei seggi, per salvare la Presidente; molto difficile, ma teoricamente non impossibile. Dopo la Camera, si vota al Senato, a maggioranza assoluta. In caso affermativo, Dilma è «congelata» per un periodo massimo di 180 giorni e il suo vice Michel Temer assume la presidenza ad interim. Mentre si svolge il processo, Temer ha la facoltà di nominare ministri, cambiando de facto la fisionomia del governo. Se sarà giudicata colpevole, Dilma decade e sarà inibita per 8 anni; se assolta, tornerà di nuovo al comando con Temer come vice, da separati in casa.
Per alcuni giuristi si sta trasformando un regime presidenzialista in uno semi-parlamentario, dove è il Congresso di fatto a scegliere chi comanda. L’unico precedente è del 1992, con Fernando Collor de Melo che diede le dimissioni dopo che la Camera lo aveva condannato con un ampia maggioranza. Ma allora c’era un Paese intero contro di lui. Oggi è diverso; se è vero che il 68% dei brasiliani, stando ai sondaggi, è favorevole alla destituzione di Dilma, dall’altra parte c’è un governo che ha dimostrato di poter contare ancora su una forte base, capace di riempire le piazze, anche se con proporzioni minori rispetto agli avversari. Con Dilma si è schierata anche buona parte dell’intellighenzia brasiliana, da musicisti come Chico Buarque, a Caetano Veloso a centinaia di professori universitari, intellettuali, ricercatori, in difesa dei programmi sociali che hanno combattuto la fame e permesso ai giovani delle periferie di andare all’università. Mero assistenzialismo populista, invece, secondo il popolo delle pentole, che aspetta e spera nella caduta della presidente pronta ormai all’ultima battaglia.