Corriere 5.16
Perché Obama con l’Isis si sta giocando la Storia
di Franco Venturini
Barack
Obama è alla vigilia della scelta più difficile della sua presidenza:
deciderà di scendere a compromessi con Mosca pur di battere l’Isis entro
quest’anno, oppure uscirà dalla Casa Bianca senza aver davvero
affrontato quella che egli stesso definisce la più terribile minaccia
che pesa sull’Occidente? Se l’Isis avesse l’atomica la userebbe, ha
detto il presidente al vertice sulla sicurezza nucleare che si è appena
tenuto a Washington. Nessuno ne dubita, e tutti sanno che una bomba
«sporca» non è poi tanto difficile da mettere insieme.
N on solo:
gli Usa sono consapevoli degli effetti destabilizzanti che il terrorismo
e le ondate migratorie provocano in Europa, e sanno che in entrambi i
casi sono l’Isis e la tragedia siriana a soffiare sul fuoco.
Soprattutto, in un mondo che pare frantumarsi ogni giorno di più, i
successi dell’accordo con l'Iran e del disgelo con Cuba non bastano più.
La presidenza di Obama sarà invece giudicata dalla Storia sul metro
della risposta data alla minaccia globale dell’Isis, e del parallelo
recupero di dignità politica degli Stati Uniti nei confronti di una
Russia rivelatasi maestra nel ristabilire, a tempo di record, la sua
influenza in Medio Oriente.
Il presidente non ha molto tempo per
sciogliere il suo dilemma. In Siria l’esercito di Assad continua ad
avanzare dopo aver riconquistato Palmira con il decisivo appoggio dei
cacciabombardieri russi (altro che ritiro, come aveva annunciato Putin).
Aleppo è virtualmente assediata. E si parla ormai apertamente, anche a
Mosca, di un prossimo attacco a Raqqa, la «capitale» dell’Isis, sferrato
anche in questo caso da truppe regolari siriane e aerei russi. Con loro
potrebbero agire formazioni miste curdo-arabe che gli Usa da tempo
tentano di consolidare, ma ecco allora emergere il tormento di Obama: è
concepibile che l’America collabori con Assad il sanguinario pur di
battere l’Isis? La Casa Bianca se la sente di fare pressioni sugli
oppositori e sulla Turchia per agevolare l’operazione russo-siriana, che
non sarebbe comunque una passeggiata?
Fonti autorevoli assicurano
che proprio di questo si è parlato il 25 marzo scorso al Cremlino,
quando John Kerry ha reso visita al collega Lavrov e a Vladimir Putin. E
ciò malgrado la permanenza di un contrasto forte, che ufficialmente
nessuna delle due parti vuole negare, sul trattamento da riservare a
Bashar al-Assad: uscita morbida, non pregiudizievole per gli alawiti e
dopo elezioni secondo i russi; uscita più ravvicinata nell’ambito di una
transizione concordata con le opposizioni secondo gli americani (e gli
europei) . Con gli americani che aspettano indicazioni più chiare da
Obama.
Tanto più che si potrebbe ipotizzare una tenaglia anti Isis
tra Siria e Iraq, perché anche in Iraq è in preparazione una offensiva
contro la capitale del Califfato, Mosul. Qui si muovono reparti iracheni
appena addestrati (anche dagli italiani), truppe speciali e un
centinaio di marines americani, reparti curdi (quelli di Barzani)
addestrati dai turchi, volontari appartenenti alle tribù sunnite che si è
riusciti a mobilitare. E dall’alto la copertura è garantita (potrebbe
accadere anche a Raqqa) dalla coalizione guidata dagli Usa. Niente
esercito da Assad, da queste parti. Il che rende politicamente più
facile una impresa che militarmente resta ardua.
Eccola, la
cornice nella quale Obama deve decidere se vuole ritagliarsi un ruolo da
protagonista. Mandando giù qualche boccone amaro in Siria, ma avendo
anche la possibilità di incidere sul negoziato che tra pochi giorni
riprenderà a Ginevra tra potere di Damasco e formazioni resistenti, il
che significa con Iran, Hezbollah e Russia da un lato e Turchia, Arabia
Saudita e altre monarchie del Golfo dall’altro. Tra operazioni militari e
negoziato diplomatico l’antica strategia del doppio binario torna a
essere possibile, almeno fino alla liquidazione dell’Isis. Beninteso ciò
richiederebbe un accordo serio tra Usa e Russia sul Califfato e ancor
più sul futuro della Siria, senza badare troppo a polemiche di contorno
come quelle sui miliardi russi scoperti offshore.
Obama farebbe
bene a pensarci e a decidere senza altri tentennamenti, perché il treno
per sconfiggere l’Isis e per arrestare in seguito la mattanza siriana
potrebbe non passare più. Almeno durante la sua presidenza.
E tra
chi non può più aspettare ci siamo anche noi, c’è anche l’Europa.
Sconfiggere l’Isis in Siria e in Iraq significa isolare l’Isis in Libia,
rendere molto più difficile la sua penetrazione in tutte le aree calde
dell’Africa. E ridurre il vantaggio strategico che viene al comando
«regionale» di Sirte dalla vicinanza alle coste dell’Italia e
dell’Europa. In attesa che venga fatta luce sulle prossime iniziative
occidentali in Libia. E ancora, estirpare l’Isis in Siria e in Iraq può
avviare processi di pacificazione che resterebbero complessi ma
sarebbero tali da ridurre la pressione migratoria verso l’Europa del
centronord (non quella in forte aumento che sin qui riguarda l’Italia,
figlia dell’Africa e delle milizie libiche).
Obama vorrà mettersi
in gioco? Speriamo di sì, ma non illudiamoci. Una sconfitta militare
colpirebbe a morte soltanto l’organizzazione dell’Isis. Continuerebbero a
vivere il fanatismo atroce che ha propagato in una parte del mondo
islamico, il tentativo di sovvertire le comunità musulmane residenti in
Europa, la volontà di tornare all’Islam del VII secolo. La guerra può
essere vinta domani, la lotta per le coscienze durerà molto di più.
fventurini500@gmail.com