martedì 5 aprile 2016

il manifesto 5.4.16
La necessità di un nuovo ordine internazionale
Europa. Nell’ostilità contro i nuovi flussi migratori si occultano le responsabilità dirette che le potenze euro-atlantiche hanno nelle guerre e negli squilibri economici che condannano all’emigrazione
di Ignazio Masulli

In più di un ventennio, gli Usa e i loro maggiori alleati europei hanno intrapreso azioni militari con i più vari e pretestuosi obiettivi, senza alcun risultato coerente e apprezzabile. Lo stesso è avvenuto in tanti interventi, affatto interessati e arbitrari, nei conflitti interni di altri paesi. Su un altro versante, le pur giustificate reazioni a violenti attentati terroristici sono apparse spesso velleitarie o fuori misura se non, addirittura, strumentali. Ancor più grave e desolante è l’incapacità di rispondere in modo responsabile e adeguato ai nuovi e crescenti flussi migratori, cui si reagisce con vane chiusure e negazione dei diritti umani.
Su tutti e tre i fronti sono apparsi del tutto evidenti i limiti delle politiche internazionali perseguite dai paesi della Nato negli ultimi decenni. Limiti che non lasciano intravedere alcuna prospettiva affidabile per il futuro, sia immediato che di più lungo periodo.
Nel 1990, col venir meno dell’equilibrio bipolare che aveva contrassegnato, in modo duro e minaccioso, i rapporti internazionali dal secondo dopoguerra, si ritenne possibile la costruzione di un nuovo ordine nei rapporti internazionali. Un ordine pluripolare e basato su politiche di pace e cooperazione.
Purtroppo, nulla di tutto questo si è verificato. All’ordine bipolare se n’è sostituito uno monopolare e affatto unilaterale. I paesi del Patto Atlantico, di fronte a uno scacchiere libero dai precedenti vincoli, si sono lanciati in una partita economica e politica in cui hanno affermato in modo prepotente e univoco gli interessi dei propri gruppi dominanti, economici, tecnologici, tecno-militari e politici.
La conseguenza è stata la riproposizione di modelli e strategie di politica internazionale, aggressivi e bellicisti, non molto dissimili da quelli praticati nei decenni precedenti.
Così è stato, ad esempio, nel controllo di zone d’influenza da mantenere ed espandere in antagonismo con altri paesi. Un altro strumento ben collaudato e tornato in auge è stato quello di far leva sulle ambizioni di un paese in una determinata regione contrapponendole a quelle di un altro ritenuto più distante o ostile rispetto agli interessi perseguiti. Salvo verificare poi che, proprio per l’azione svolta, il regime di cui ci si è serviti ha acquistato un potere e autonomia giudicati eccessivi e, quindi, da ridimensionare. Così è accaduto per l’Iraq di Saddam Hussein, l’Egitto di Hosni Mubarak, la Tunisia di Ben Ali e simili. Altre volte, i pretestuosi obiettivi di combattere contro minacce incombenti o in difesa della democrazia sono stati agitati contro regimi ritenuti decisamente ostili, come nel caso di Mu’ammar Gheddafi in Libia e Bashar al-Assad in Siria. In ogni caso, i risultati sono stati fallimentari e hanno comportato solo grandi sofferenze per le popolazioni civili.
In diversi contesti, non ci si è fatto scrupolo di rinfocolare vecchie contrapposizioni etniche o religiose per strumentalizzarle ai propri fini o giustificare interventi affatto arbitrari. Com’è accaduto in vari paesi dell’Africa centrale e orientale.
La logica unilaterale che, in tal modo, si è affermata nella regolazione dei rapporti internazionali ha avuto l’esigenza della continua individuazione di un nemico e di una presunta minaccia esterna.
La funzione vicaria e meramente strumentale di tale esigenza è dimostrata da accuse, poi smentite, come quella del possesso di “armi di distruzioni di massa”.
Perfino nei casi, obiettivi e drammatici, di gravi attentati terroristici, il carattere chiaramente sproporzionato ed erroneo delle reazioni ha dimostrato l’uso strumentale che se n’è fatto, sia a fini interni che internazionali. E nell’ostilità dispiegata contro i nuovi flussi migratori si occultano le responsabilità dirette che proprio le potenze euro-atlantiche hanno nelle guerre e negli squilibri economici che condannano molti milioni di persone all’emigrazione. Si fa credere che un fenomeno di tale portata può essere effettivamente arginato. Si cerca di deviare l’attenzione delle popolazioni autoctone dalle cause effettive del peggioramento delle loro condizioni di lavoro e di vita. Si omettono i vantaggi demografici, economici e sociali che dai flussi migratori possono derivare solo che si voglia e si sia capaci di governarli in modo positivo e inclusivo. Capacità che manca non per difetti soggettivi, bensì per scelte politiche conservatrici. Scelte che vanno in direzione esattamente opposta alle trasformazioni necessarie e possibili nell’interesse di tutti.
Sono proprio queste mistificazioni, che sempre più facilmente si mischiano e si sovrappongono, a mostrare come ci si stia muovendo in una situazione di confusione e instabilità nello scenario internazionale assai pericolosa e priva di prospettive.
Nonostante la fine della guerra fredda, la logica dei rapporti internazionali è rimasta unilaterale e aggressiva, basata sulla chiusura più che sull’apertura, sulla competizione più che sulla cooperazione, sull’affermazione di false identità più che sul dialogo e il riconoscimento dell’altro. Ma si tratta, appunto, di un ordine residuale e velleitario.
La spiegazione di questo stato di cose va ricercata nel fatto che l’attuale ordine dei rapporti internazionali si è costruito nella difesa dei blocchi di potere dei paesi del capitalismo storico consolidati nella contrapposizione a un’alleanza politico-militare e modello sociale avversi e ritenuti pericolosi per i propri interessi dominanti.
La costruzione necessaria di un nuovo ordine internazionale foriero di pace, aperto alla cooperazione economica, alla partnership e collaborazione politica non può avvenire se non modificando i blocchi di potere così come si sono costituiti all’interno dei paesi euro-atlantici e nelle loro diramazioni internazionali dal secondo dopoguerra a oggi.
Si tratta di una sfida certamente assai ardua. Ma non si vede come sia possibile affrontare i problemi complessi e strettamente interdipendenti del mondo contemporaneo se non in una logica e pratica dei rapporti internazionali assai diverse dalla parzialità, disordine e assenza di prospettive che caratterizzano quelle attuali.