La Stampa 30.4.16
Philippe Daverio
“La cultura? In Italia è in minoranza. Essere intelligenti non paga”
“Funzionano soltanto architetti e designer. E, a sorpresa, quegli eroi degli scienziati”
intervista di Alberto Mattioli
Philippe
Daverio è il conversatore più brillante di cui disponga un Paese dove
purtroppo piacciono più le urla. Ed è anche uno dei pochi che possano
discorrere davvero di tutto: il problema non è farlo parlare, semmai
farlo smettere. Riceve in accappatoio a righe e pantofole rosse modello
Ratzinger («Lo adoravo») nella sua labirintica bellissima casa di
Milano, un intrico inestricabile di libri, quadri e cani.
Che cosa fa, adesso?
«Molte conferenze. E insegno a Palermo, purtroppo».
Purtroppo per l’insegnamento o per Palermo?
«Per Palermo. La Sicilia è affascinante soltanto se non devi lavorarci».
Cosa insegna?
«Se
riuscissi a capirlo sarei felice. Sono ad Architettura, ma ho una
cattedra di Design. Dopo le riforme di quella che non sapeva nemmeno
cosa sia un’università non si capisce più nulla».
Intende la Gelmini?
«Sì, lei».
Lei
era la star di quei cinque milioni di italiani, uno su 12, che leggono
libri e giornali, vanno alle mostre e a teatro, insomma la minoranza
silenziosa. Perché è sparito dalla tivù?
«Perché la Rai delega
sempre di più a produttori esterni. E il fatturato della mia piccola
bottega era troppo piccolo per renderla appetibile. La cosa buffa è che
continuano a replicare le mie vecchie puntate, che fanno sempre buoni
ascolti».
Perché in Italia la cultura è in minoranza?
«Perché
ha vinto la Controriforma: san Carlo Borromeo è stato il più grande
politico italiano di tutti i tempi. Leggere è pericoloso, perché poi si
pensa con la propria testa e magari si diventa eretici. Quindi, viva
l’analfabetismo. C’è anche il rovescio della medaglia, però».
Quale?
«Architettura, pittura e scultura se ne sono giovate. E abbiamo inventato l’opera».
Venendo a politici più vicini a noi, chi le piace?
«Direi nessuno».
Nemmeno Renzi?
«È
un incrocio fra Berlusconi e Benigni. Di Berlusconi ha il protagonismo e
la voglia di fare, di Benigni l’apparente simpatia e l’accento. In ogni
caso, è sveglio».
Pericoloso o promettente?
«Direi
preoccupante, essendo del tutto privo di una visione del futuro. Gli
interessa solo inseguire il consenso. Io preferivo Bersani».
Bersani?
«È
l’unico politico a darmi l’impressione di credere a quel che dice. Poi
magari dice un sacco di sciocchezze, ma almeno le dice in buonafede. Il
dramma dell’Italia è la mancanza di quella che i tedeschi chiamano
“Prominenz”».
Traduca.
«Una classe di notabili che guidi il
Paese. Noi l’abbiamo avuta dopo al Seconda guerra mondiale; dopo
Tangentopoli, non l’abbiamo più. Non mi riferisco solo alla politica.
Gli intellettuali sono spenti e frustrati. Sopravvivono gli scienziati.
Non so perché: date le condizioni della ricerca, devono essere degli
eroi. Però ci sono».
E le arti?
«Vanno bene l’architettura e il design».
Perché?
«Perché sono le uniche ad avere rapporti con il mercato e con il mondo vero».
Chi è stato il peggior ministro dei Beni culturali?
«Che
domande! La Bono Parrino. Me la ricordo a Londra, a un ricevimento
della Royal Academy alla presenza del Principe Carlo. Leccò il coltello
della torta. Che vergogna».
E il migliore?
«A pari merito, Alberto Ronchey e Antonio Paolucci».
E Franceschini?
«È lì da troppo poco tempo. Finora, direi, nella media».
Veniamo a lei. Perché un signorino alsaziano, cresciuto nel crocevia dell’Europa, si è stabilito a Milano?
«Perché
mio padre era di origini lombarde e perché mi avevano sbattuto fuori
dal collegio a Strasburgo. Mi iscrissi alla Bocconi, Economia: un errore
di programmazione. Infatti non la finii mai. Sono l’unico professore
ordinario senza laurea. Però ho fatto il Sessantotto, nel Movimento».
Daverio con l’eskimo!
«No,
con il papillon. Esiste ancora nell’archivio del Corriere una foto mia e
di mio fratello in corteo dietro uno striscione con i nostri bei
cravattini. L’altro fratello, invece, fa il colonnello del Sesto
Dragoni, a Saumur».
Nel ’93, assessore alla Cultura a Milano, con Formentini. Scandalo: Daverio che governa con i leghisti con le corna in testa...
«In realtà Formentini è un uomo coltissimo, ma pigro. Quindi il nostro libro su Tacito non lo finiremo mai».
Come valuta quell’esperienza?
«Non
sta a me dirlo. Ma la Milano di oggi, con il complesso del Palazzo
Reale, la nuova Scala, il Castello sistemato, il piano urbanistico, fu
concepita allora».
La ripeterebbe?
«Mia moglie non me lo permetterebbe. Chiudendo la galleria, ci ho rimesso un sacco di soldi».
A proposito: Sala o Parisi?
«Alla
fine, meglio Sala. Ma senza entusiasmo. Nessuno dei due ha la minima
idea di come dovrebbe diventare Milano fra vent’anni».
Tre persone che salverebbe oggi in Italia.
«Faccio fatica. Mi consola il fatto che non le salverei nemmeno in Francia. No: a ben pensarci, in Italia qualcuno c’è».
Chi?
«Giorgio
Napolitano. Me lo ricordo a New York, in una casa amica, ministro degli
esteri del Pci in tournée americana. A Capalbio, da pensionato, in
spiaggia con le ciabatte e l’ombrellone. E infine al Quirinale. In tutti
e tre i casi, sembrava l’uomo giusto al posto giusto. Come in un
racconto di Somerset Maugham».
Ammette di essere un po’ snob?
«Credo che lo snobismo sia un valore positivo. Forse per questo non esiste più. Oggi è più importante il dandysmo».
Perché?
«Perché è l’unica forma possibile di distinzione».
Per questo si veste nel suo modo pazzesco?
«Ma no, è un caso. I vestiti sono come i libri: mi sono cresciuti addosso».