La Stampa 30.4.16
Mogherini: “Basta schizofrenia. Gli Stati devono seguire l’Europa”
Il capo della diplomazia Ue: fanno di testa loro e poi danno la colpa a noi
È un’illusione pensare di gestire i fenomeni migratori a livello nazionale
di Marco Zatterin
C’è
anche un’Europa «schizofrenica», ammette Federica Mogherini,
Soprattutto nel gestire gli Affari interni, e l’immigrazione in
particolare. Troppe volte, spiega l’alto rappresentante Ue per la
Politica estera, «si riconosce che il problema è più grande di quanto
qualsiasi Stato da solo sia in grado di gestire, si chiede una risposta
europea, ma subito dopo - anche se è stata presa una decisione - non la
si mette in atto, si riprende la strada nazionale e si scarica la colpa
sull’Europa». Brutta storia, «un circolo vizioso rischia di
neutralizzare gli strumenti europei che abbiamo faticosamente iniziato a
costruire, dalla gestione delle frontiere alla politica migratoria e di
asilo comune».
Come se ne esce?
«Bisogna allineare il
discorso politico che sta a monte delle decisioni comuni con quanto i
governi fanno quando tornano a casa. Finché non si mantiene una condotta
coerente, il sistema non può funzionare. Così aumenta la frustrazione
delle opinioni pubbliche perché non si hanno le risposte e si
indeboliscono gli strumenti comunitari. È questa la crisi che l’Ue sta
vivendo, una crisi di coerenza e visione, di miopia, frutto di una
leadership che fatica a trovare la direzione di marcia e seguirla
coerentemente».
Non è lo stesso per la politica estera?
«Molto
meno. Su tutti i principali temi di politica estera c’è identità fra
l’agenda nazionale dei ventotto e quella europea. È il contrario della
nazionalizzazione».
Anche sulla Russia?
«Qui come altrove le
differenze ci sono, ma non divisioni. Al Consiglio Esteri ho proposto
di rivedere la strategia “russa” oltre le sanzioni, che sono uno
strumento e non una politica. L’intesa su un impegno mirato su certi
dossier è totale».
A luglio scadono le sanzioni economiche. Che si fa?
«Hanno
sempre deciso i leader. Il caso andrà al vertice di giugno. Sino ad
oggi si è detto che la fine delle sanzioni è legata al rispettò
dell’accordo di Minsk. È difficile che fra due mesi sia attuato in
pieno. A un certo punto, sarà utile che Ue, Francia e Germania - che
rappresentano l’Europa nel Formato Normandia - propongano una
valutazione dello stato di attuazione di Minsk, delle sue prospettive di
realizzazione e gestione futura».
Si parla di Francia e Germania. E l’Italia, che ruolo ha?
«Molto
positivo. La sua politica estera è quella europea. Lo dimostra il
Migration Compact. È un sostegno politico all’opera che abbiamo avviato
con l’Africa, programmando investimenti intelligenti e di lungo periodo
per gestire i fenomeni migratori con i paesi di origine e transito».
In che modo?
«Dedichiamo
all’Africa ogni anno 20 miliardi. Ora lavoriamo a un strumento per lo
sviluppo dell’Africa che ricalchi il piano Juncker per gli investimenti
che abbiamo realizzato per l’Ue. Qualcosa che faccia leva su
finanziamenti europei e che li moltiplichi con investimenti privati».
Restiamo in Italia. Si sente sempre tirare in ballo l’Europa per ogni: i marò, il caso Regeni. Ha senso?
«Sono
casi diversi, ma è giusto che l’Italia invochi la dimensione europea.
Cercare soluzioni europee implica anche contribuire a costruirne. È ciò
che tutti dovremmo fare».
Poi però i marò non tornano, l’Egitto fa quel che vuole e si gonfia il fronte euroscettico.
«Per
entrambi i casi il lavoro al fianco delle autorità italiane è stato
costante, come la disponibilità a sostenerle in ogni modo ritenuto
utile. Abbiamo sollevato il tema in tutti i bilaterali, con l’India e
con l’Egitto. Continueremo a farlo».
E la guerra del Brennero?
«Senza
una politica europea condivisa sul l’immigrazione anche un Paese come
l’Austria, che è stato generoso nell’accogliere i rifugiati, finisce per
evocare la reintroduzione dei controlli. È una illusione pensare di
gestire il fenomeno a livello nazionale, oltretutto l’idea di innalzare
barriere fisiche all’interno dell’Ue è inaccettabile, sproporzionata e
contraria allo spirito dei trattati. Reintrodurre controlli alle
frontiere deve essere un fatto eccezionale e temporaneo, come ha
ribadito la Commissione».
Si può essere ottimisti sulla Libia?
«Siamo
iniziando a lavorare con il governo di unità nazionale, abbiamo non
solo annunciato 100 milioni di aiuti ma anche avviato già alcuni dei
progetti sui quali attivarli. Se i libici riescono ad unire le forze
attorno ad istituzioni comuni, per un impegno comune su sicurezza,
controllo delle risorse, ricostruzione, e contrasto al traffico di
esseri umani, il Paese ha un futuro. Una volta ripartita, la Libia non
ha bisogno di un aiuto economico».
La stampa tedesca parla di un piano «con misure drastiche» per fermare i profughi dal Nord Africa. È così?
«Nessuna
“misura drastica”, ma un lavoro serio per evitare che migliaia di
persone muoiano. La logica del “soldi in cambio della garanzia di tenere
i migranti in carcere” appartiene al passato, ed abbiamo già visto i
danni che ha fatto. Quel tempo è finito. Oggi quello a cui lavoriamo è
un partenariato, che richiede risorse, impegno politico e, soprattutto,
un governo libico».