La Stampa 2.4.16
Il referendum doppiamente sbagliato
di Giovanni Sabbatucci
C’è
qualcosa di sbagliato e di improprio nel dibattito che precede il
cosiddetto «referendum sulle trivelle» del prossimo 17 aprile: qualcosa
di sbagliato nella sostanza e di improprio nella forma.
La
sostanza va ben al di là del quesito specifico, che chiede agli elettori
di pronunciarsi sull’eventuale proroga delle concessioni per
l’estrazione di idrocarburi in mare a meno di venti chilometri dalle
coste: in gioco è la politica energetica del nostro Paese, che di
energia a buon mercato ha sempre avuto un gran bisogno. Trovarne almeno
una parte in casa propria - come accadde negli Anni Cinquanta, ai tempi
dell’Eni di Mattei - sarebbe assai utile, non solo per ridurre la
dipendenza da partner esteri instabili o imbarazzanti, ma anche per
creare occupazione laddove scarseggia. A meno che non si dimostri che
gli impianti (le trivelle) comportano eccessivi pericoli per chi vi
lavora (finora non è stato così) o provocano inquinamento chimico dei
fondali o danni irreparabili alla fauna marina e quindi alla pesca.
La
sostanza del problema sta tutta qui: di questo dunque si dovrebbe
discutere nelle sedi appropriate. E invece no: come spesso accade in
questo Paese, il dibattito sfocia subito in contrapposizioni ideologiche
o apertamente politico-partitiche: ambientalisti contro industrialisti,
governo contro opposizioni, maggioranza contro minoranza del Partito
democratico. Pochi si sono sottratti a queste logiche. Fra questi Romano
Prodi che ha annunciato il suo No, coerentemente con la sua storia di
studioso e di dirigente d’industria. Meno coraggioso, Pierluigi Bersani
ha detto che voterà ma non come voterà, probabilmente per non rompere il
fronte della minoranza Pd, schierata per un Sì dalle chiare
implicazioni antirenziane. Il segretario-premier ha infatti scelto per
il suo partito la via, abbastanza inusuale, dell’astensione. Ed è stato
per questo criticato da sinistra.
La critica è ovviamente
legittima sul piano politico. Ma - qui vengo alla questione di forma -
non può essere estesa a chiunque abbia consapevolmente scelto di
astenersi dalle urne. Il quesito è molto tecnico e di difficile
comprensione (si tratta di dire sì o no all’abrogazione di una legge che
consente la proroga di una concessione già in atto). L’elettore può
decidere che la questione è per lui irrilevante o troppo complicata e
rifiutarsi di rispondere: senza per questo essere trattato come un
ignavo o come un baro che si appropria indebitamente delle astensioni
fisiologiche o di quelle genericamente «antipolitiche» per far vincere
una delle opzioni in campo. Del resto, la Costituzione (art.75) parla
chiaro: quando fissa un tasso di affluenza minimo del 50 % come
condizione della validità del referendum abrogativo, prevede la presenza
degli astensionisti e implicitamente li riconosce come parte di un
processo elettorale, lasciando ai promotori della consultazione l’onere
di suscitare interesse e partecipazione intorno al quesito proposto.
Anche
su questo punto, la Costituzione può essere cambiata: si è parlato
spesso di abolire il quorum e di alzare contestualmente il numero di
firme necessario per la tenuta del referendum. Ma, finché l’articolo 75
resta com’è, prendersela con chi non vota è inutile e ingiusto. Tanto
più quando il vero tema di dibattito rischia di essere oscurato da
scelte pregiudiziali e logiche di schieramento.