La Stampa 26.4.16
Lager di Unterlüss, la rivincita degli eroi dimenticati
Un
libro ricostruisce la storia dei 44 ufficiali italiani internati che
nel ’45 si rifiutarono di diventare schiavi di Hitler: sei di loro
pagarono con la vita
di Mirella Serri
Gaetano era
di Torino e quando fu catturato si trovava in Albania con la IX armata;
Michele, originario di Campobasso, era in Slovenia per difendere il
confine; Antonio, 31 anni, combatteva a Larissa, in Grecia, e allorché,
dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, chiese al capitano cosa si
doveva fare, ottenne questa risposta: «Quello che volete». Gaetano
Garretti di Ferrere, Michele Montàgano, Antonio Rossi rientrarono nel
nutrito contingente di militari italiani che, fatti prigionieri dopo la
fuga del re Vittorio Emanuele III e l’occupazione tedesca della
Penisola, ebbero il coraggio di dire «No!» e si rifiutarono di
combattere sotto le bandiere del Reich. Con altri duecento commilitoni
manifestarono un’ulteriore audacia: si sottrassero al lavoro coatto al
servizio di Hitler.
Il 24 febbraio 1945 diventarono i protagonisti
di uno degli episodi più significativi della Resistenza italiana,
compiendo un gesto di altissimo «onore militare e personale», come lo
definisce Andrea Parodi nel libro Gli eroi di Unterlüss.
La storia
dei 44 ufficiali Imi che sfidarono i nazisti (Mursia, pp. 216, € 16).
Una vicenda che, ci avverte l’autore, è rimasta fino a oggi inedita. E
che non sarebbe mai stata ricostruita se Parodi stesso non si fosse
imbattuto nei documenti di un suo prozio, Carlo Grieco, che non solo non
aveva mai raccontato ai parenti e alla moglie di essere stato un
ufficiale Internato Militare Italiano, ma non aveva mai nemmeno rivelato
di essere stato un eroe di guerra.
Gelo, pioggia e ratti
Gaetano,
Michele (vivacissimo ancora oggi, con i suoi 94 anni ben portati),
Antonio (padre dell’economista Nicola Rossi) e tanti altri, dopo essere
stati catturati e designati non come prigionieri di guerra ma come
Italienische Militär-Internierte, detti anche Imi (in modo che non
dovessero essere loro riconosciute le garanzie della Convenzione di
Ginevra), furono chiusi nel Lager di Wietzendorf. Qui si trovarono con
il futuro dirigente politico Alessandro Natta e lo scrittore Giovanni
Guareschi, pronti a resistere alla sollecitazione di diventare «optanti»
e di indossare la divisa delle SS. Alloggiati in baracche dal cui
soffitto pendevano ghiaccioli, e con la pioggia che cadeva sui loro
letti infestati da ratti parassiti e pidocchi, nutriti con brodaglie di
rape e qualche buccia di patata, furono ridotti allo stremo delle forze.
Successivamente,
però, dall’estate del 1944, il loro status mutò: furono considerati
alla stregua di «lavoratori civili», per poter essere sottoposti a
fatiche e privazioni senza godere delle tutele della Croce Rossa
Internazionale. Al Lager arrivavano ogni giorno gli imprenditori per
scegliere i loro sottoposti o schiavi. Misuravano la corporatura, la
massa muscolare, controllavano bocca e denti: per i tedeschi, «noi
eravamo civili», ricorda Montàgano, «ma continuavamo a sentirci
ufficiali del Regio esercito italiano».
Un drappello di 214
italiani fu mandato a Dedelstorf a costruire una pista di volo: gli
ufficiali, consapevoli della propria dignità e del proprio ruolo,
incrociarono le braccia. Il gruppo in realtà non era compatto: alcuni
avrebbero voluto trattare con gli uomini di Hitler, chiedere incarichi
meno pesanti. Altri invece firmarono un documento esponendo le ragioni
di un netto rifiuto. All’alba del sesto giorno, la sveglia fu
drammatica. Un ufficiale della Gestapo li convocò accusandoli di
tradimento, poiché «lo sciopero in Germania è considerato un delitto».
Per questo era necessaria una punizione esemplare: vennero selezionati
21 condannati a morte.
Atroci torture
Tra i prescelti non
rientrava nessuno di coloro che avevano sposato la posizione più
intransigente. Così si fecero avanti prima 31 militari e poi altri 13
chiedendo di sostituire i compagni già designati per la fucilazione. I
tedeschi si riunirono in un conciliabolo che durò otto ore: non solo
erano stupefatti di tanta audacia ma, prevedendo la disfatta,
riflettevano anche sulle ripercussioni che sarebbero derivate da
quell’assassinio di ufficiali che non si piegavano. Nel frattempo i 44
volontari furono rinchiusi in un piccolo cortile all’interno del campo
di aviazione, così come si trovavano, scalzi e svestiti, con la
temperatura di parecchi gradi sotto zero. Poi, a colpi di manganello,
gli internati furono fatti salire su un rimorchio trainato da un
trattore che si avviò per i campi.
I 44 erano convinti che
sarebbero stati passati per le armi: invece furono spediti a Unterlüss,
uno dei Lager più duri di tutto il Reich, dove furono sottoposti a
atroci torture. Sei di loro morirono, tre uccisi dalle botte dei
sorveglianti. Per quelli che si salvarono, l’esistenza nel dopoguerra
non fu facile e dovettero aspettare decenni perché il loro gesto eroico
fosse riconosciuto: era qualcosa di anomalo, che non rientrava nei
parametri più noti e accreditati della Resistenza. Gli ex militari, in
generale, erano guardati con sospetto, come ex fascisti.
«Di
questa Resistenza senza armi», afferma Parodi, «si è diffidato a lungo
anche se ha contribuito a portare la libertà e la democrazia nel nostro
paese». Nei Lager del Terzo Reich furono deportati circa 710 mila
militari italiani registrati come Imi e tra loro ben circa 600 mila
decisero di boicottare e ostacolare, a costo della vita, lo sforzo
bellico dei tedeschi.