Corriere 26.4.16
La teocrazia di Ambrogio
Il patrono di Milano affermò per primo la supremazia della chiesa sullo stato
di Paolo Mieli
Nel
IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario,
teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da
Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere
considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in
cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato
le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea
(325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo
l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico,
Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono
contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la
Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica
che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani. Un grande
protagonista di questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva
avuto qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti
dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale libro di
Franco Cardini Contro Ambrogio , che sta per essere dato alle stampe
dalla Salerno.
Fin dalle prime righe, Cardini mette le mani avanti
per difendersi dalle accuse che potrebbe ricevere per questo saggio
impertinente. Il suo non vuol essere né un pamphlet «provocatorio», né
«un’indecorosa dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a
livello storico o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che,
tra l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono
essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né
«paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose
polemiche» con il senno del poi. È, quello di Contro Ambrogio , solo un
tentativo di «uscire dal comodo riparo dello storico» a favore di una
modalità che gli consenta di «scoprirsi», «esporsi», «prendere
posizione». Il tutto non disgiunto da un «pizzico di autoironia per aver
tentato, al cospetto di un gigante della storia e del pensiero, una
specie di ruggito del topo».Tra l’altro che ci siano aspetti controversi
nella vita di Ambrogio traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili
note di Marco Navoni alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo)
scritta da Paolino, coevo e principale collaboratore del patrono di
Milano. Così come, sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare
Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni
San Paolo) e di Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E
anche, sia pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande
(Salerno) di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini prende le mosse
dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo di governatore laico
di una regione che all’epoca corrispondeva alla Liguria e all’Emilia e
pur non essendo ancora battezzato, il trentacinquenne Aurelio Ambrogio
(era nato nel 339 a Treviri, città che dal 292 era la residenza
ufficiale dell’imperatore romano d’Occidente) fu nominato vescovo di
Milano, dal 286 «sede imperiale». Era figlio di un alto magistrato del
sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un «ambiguo silenzio» che ci
indurrebbe a sospettare fosse stato coinvolto in una delle controversie
dell’epoca e avesse «militato dalla parte degli sconfitti». A «portarlo
così in alto» era stato il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto
chiacchierato con evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come
l’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano
II) protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla
cattedra episcopale milanese, Aussenzio.
A decidere della sua
elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un
bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio
vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che
Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato
episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità
popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben
riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di
quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con
qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante
appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento comparve al
suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio, che gli fu
accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più di lui, gli
sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo fratello Satiro, che
Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane. Quanto a lui, nel 376, in
contrasto con l’imperatrice Giustina, si oppose all’elezione a Sirmio di
un vescovo seguace di Ario e dal 378 iniziarono a comparire spunti
anti-ariani nelle sue omelie. Giusto in tempo per essere in sintonia con
l’editto di Tessalonica (380), con il quale l’imperatore d’Oriente,
Teodosio, impose «a tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina
apostolica e la dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di
Padre, Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini,
«ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il vero
fondatore dell’impero romano-cristiano».
Comunque la partita
religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la
libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica
in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla
(«spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a
spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della
legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane,
incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si
concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di
professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.
Il
vescovo di Milano, una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a
sottomettere quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta,
nel corso di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a
lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima fila,
tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo
simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò, dopo
una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità religiosa
nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda del tempio di
Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di cristiani aveva date alle
fiamme una sinagoga, l’imperatore li aveva condannati a risarcire la
comunità ebraica: Ambrogio impose a Teodosio di revocare
quell’ingiunzione.
Poi, nel 390, ci fu la strage di Tessalonica.
Un auriga dei giochi circensi era stato imprigionato per «comportamento
immorale». I suoi tifosi avevano reagito aggredendo a sassate un
funzionario imperiale, Buterico, che era stato ucciso e trascinato per
le vie della città greca. Teodosio giudicò sospetta quell’esplosione di
rabbia e accondiscese alla richiesta dei militari di reprimere con
violenza (migliaia di morti) i rivoltosi. Ambrogio ne approfittò per
umiliare una seconda volta Teodosio, chiedendogli un pubblico pentimento
per l’eccidio. L’imperatore provò a resistere, ma poi decise di
sottomettersi all’ingiunzione. Secondo la ricostruzione di Paolino,
Teodosio «pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato… con lamenti e
lacrime invocò il perdono». Anche Agostino, nel De civitate Dei ,
ricorda la scena: Teodosio «fece penitenza con tale impegno» che tra i
fedeli il «dolore nel vedere umiliata la maestà dell’imperatore»
prevalse sullo sdegno per il ricordo della strage. Teodosio si accorse
probabilmente di quel che era accaduto nel profondo e, per rimediare, si
recò a Roma dove fu accolto da senatori e ottimati con feste che più o
meno esplicitamente rendevano omaggio agli antichi culti pagani.
Tuttavia
l’episodio dell’imperatore «penitente per imposizione di un vescovo»,
osserva l’autore, fece scalpore in tutta l’ecumene romana: era la prima
volta che «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era
sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di
un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».
Ambrogio approfittò di quell’atto di sottomissione per riprendere e
condurre a compimento «il progetto di delegittimazione totale e
irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto
l’impero». Fu lui ad ispirare l’editto del 391 che vietava qualunque
forma di ossequio alle divinità «gentili» nella città di Roma e
prevedeva pesanti sanzioni per i funzionari inadempienti. Era la «totale
palinodia» rispetto al comportamento tenuto e alle misure adottate
dall’imperatore un po’ meno di due anni prima nel corso della menzionata
visita a Roma. Da quel momento fino alla morte, nel 397, Ambrogio
esercitò una sorta di «dittatura» sottile sul potere imperiale d’Oriente
e d’Occidente. Anche a costo di lasciarsi andare ad imprudenze, di
commettere errori, e di fare scelte in contraddizione con i suoi
principi. Ma la sua missione era compiuta.
I l suo lascito fu
inequivocabile. Dal momento che il sovrano era stato per lui non al di
sopra, bensì all’interno della Chiesa, ne discendeva che risultava
subordinato all’autorità ecclesiale. In tal senso, Ambrogio si pone alla
base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso
l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il
monarchismo pontificio», ha configurato una ben delineata tradizione.
Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e
isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non
conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una
certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di papa
Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».
Un
messaggio venuto da lontano, radicato nella certezza che «il liberare e
il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di
qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto
Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione
necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene». E
sappiamo, aggiunge Cardini, che «l’intera storia della Chiesa dimostra
l’opposto». Dopo Ambrogio, la Chiesa romana divenne potente «con la
forza di una mirabile espansione intellettuale e missionaria, ma anche
con l’inflessibilità e l’intransigenza della fedeltà a un disegno
egemonico affermatosi poi tra l’XI e il XVI secolo attraverso la
rimozione delle istanze provenienti dal mondo greco, da quello
orientale, da quello vario, insidioso e imprevedibile delle eresie, da
quello musulmano (pensiero filosofico-scientifico a parte), salvo dover
poi subire i contraccolpi degli scismi, della Riforma protestante,
dell’offensiva razionalistico-scientifica».
Traendo ispirazioni e
suggestioni da Francesco d’Assisi, Nicola Cusano ed Erasmo da Rotterdam,
Cardini si chiede se, «astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani
la Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali
inquisitoriali, ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo
culturale” della “modernità” con il relativo processo di
secolarizzazione». Dubbi e rilievi che, come è evidente, vanno ben al di
là della figura storica di Ambrogio.