La Stampa 20.4.16
Shakespeare fratello d’Italia
Moriva il
23 aprile di quattrocento anni fa. È stato il maggiore poeta inglese,
ma nei suoi drammi campeggia il Bel Paese: che forse non visitò mai
di Masolino D’Amico
Quanto
fu importante l’Italia per William Shakespeare? Molto, anche se non
fino al punto di ridurre di una frazione l’anglicità del massimo poeta
inglese. Questo titolo gli spetta per almeno tre ragioni. La prima: fu
supremo nell’uso della lingua nazionale in un momento di espansione e di
grandi cambiamenti, valorizzandone e accrescendone la ricchezza a tutti
i livelli, da quello sublime della grande eloquenza, a quello della
concentrazione espressiva (basta pensare ai Sonetti), a quello delle
schermaglie dialettiche, a quello basso del volgo e della comicità. La
seconda: con i suoi dieci drammi storici riassunse e spiegò a uso dei
compatrioti due secoli di vicende della monarchia inglese, riflettendo
sulle vicende anche torbide e discutibili che avevano condotto al
momento attuale.
Falstaff vs Chisciotte
La terza: nel dar
voce a decine di personaggi memorabili, comprendendo le ragioni di
ciascuno (fu come disse Keats un poeta-camaleonte, capace di diventare
Iago come Imogene), creò Falstaff, che sarebbe rimasto come la
marionetta autoctona per eccellenza, incarnazione dell’inglese tipo,
concreto nei vizi come nelle qualità: contraltare del contemporaneo
arcispagnolo, il Don Chisciotte di Cervantes.
D’altro canto, a
parte i surricordati dieci drammi storici, Shakespeare collocò quasi
sempre le sue storie in luoghi diversi dalla madrepatria. L’in-folio,
ovvero la fondamentale raccolta delle sue opere teatrali pubblicata dai
colleghi qualche anno dopo la morte, contiene 36 tra tragedie e
commedie. Ebbene, solo dodici si svolgono in Inghilterra: i drammi
storici, più Le allegre comari di Windsor, Re Lear e, in parte,
Cimbelino. Altrimenti, lo sfondo varia. Abbiamo quattro volte la Grecia,
due la Francia, una volta sola la Danimarca e la Scozia, l’Illiria,
Vienna ecc. Ma l’Italia campeggia in ben dieci casi, undici se
aggiungiamo la parte italiana di Cimbelino, e addirittura dodici se
consideriamo territorio italiano l’isola innominata della Tempesta, che
si trova da qualche parte in mezzo al Mediterraneo e di cui è occupante e
signore il Duca (spodestato) di Milano.
Sì, gran parte dei drammi
«italiani» parlano in realtà di Roma antica - Tito Andronico, Giulio
Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano, nonché Cimbelino. Di questi il
primo e l’ultimo sono opere fiabesche, largamente di fantasia, mentre
per i tre centrali Shakespeare si documentò su fonti classiche,
soprattutto Plutarco ma anche Appiano, come recentemente dimostrato da
Luciano Canfora. Aveva a disposizione valide traduzioni, ma certo il
latino non gli era ostico.
E - altre traduzioni a parte - anche
un’infarinatura di italiano non gli mancava, sostenuta dalle opere di
Giovanni alias John Florio (il dizionario italo-inglese, la raccolta di
proverbi italiani in Secondi frutti) di cui sono molte tracce nei suoi
lavori. In ogni caso, per gli inglesi l’Italia dei tempi di Shakespeare
non era terra incognita. Di lì venivano mode e raffinatezze e molta
letteratura, comprese le novelle da cui il Bardo tolse parecchie trame;
era di importazione italiana persino la forma del sonetto, diffusa
durante la generazione precedente.
Reinterpretato da Verdi
Non
c’è dunque motivo di congetturare, come pure si è fatto, un ipotetico
viaggio di Shakespeare in Italia, ipotesi non sostenuta da alcun
documento. In quale Italia, comunque? La cena è collocata a Venezia due
volte, nel Mercante e in Otello (atto primo); a Verona altre due - I due
gentiluomini e Romeo e Giulietta; una volta a Padova (La bisbetica
domata, e una a Messina (Molto rumore per nulla). I luoghi sono
caratterizzati quanto basta, Venezia coi suoi ponti e la sua popolazione
multietnica; Padova con l’Università e i suoi pedanti; Messina con la
dominazione spagnolesca e gli sbirri indigeni, goffi, ignoranti e
presuntuosi. In Romeo e Giulietta trionfa infine il Meridione, terra di
sole, sangue bollente e profumi inebrianti...
A favore di una
conoscenza diretta del Bel Paese ci sarebbero dettagli come il calore
del luglio veronese in Romeo e Giulietta, o toponimi di Venezia (Rialto,
la Frezzaria ovvero il «Sagittar» in Otello). Ma ci sono anche
incongruenze madornali come il percorso fluviale da Verona a Milano nei
Due gentiluomini, o, nella Bisbetica, il mestiere del padre di un
personaggio, fabbricante di vele a Bergamo.
Insomma, c’è tanta
Italia in Shakespeare: un amore che curiosamente tardò a essere
ricambiato. Ancora nel ’700 il Bardo era poco noto da noi. Il letterato
veneziano Apostolo Zeno scrisse una tragedia, Ambleto, ricavando la
trama direttamente dalla fonte (Saxo Grammaticus). Preceduta da libere
versioni francesi all’origine di adattamenti musicali molto lontani dai
drammi, come I Capuleti e i Montecchi di Bellini e Otello di Rossini e
da entusiasmi romantici tedeschi, da noi l’ammirazione per il Cigno
dell’Avon scoppiò veramente solo a metà ’800. Allora però lo fece
clamorosamente. E oltre ad alcuni interpreti che si sarebbero
conquistati fama mondiale (Tommaso Salvini, Adelaide Ristori), espresse i
tre capolavori di Giuseppe Verdi: il geniale, innovativo Macbeth, il
maestoso Otello, che ancora oggi si rappresenta con una frequenza
paragonabile a quella dell’originale, e infine l’aereo Falstaff. A
proposito del quale un cultore di Shakespeare come il poeta W. H. Auden
dovendo dedicare una conferenza alle Allegre comari di Windsor come
parte di una serie che teneva a New York, preferì tacere, e far
ascoltare il disco dell’opera.