mercoledì 20 aprile 2016

La Stampa 20.4.16
Shakespeare è in tutti noi anche se non siamo epici come i suoi personaggi
di Ernesto Ferrero

Non possiamo, non potremo fare a meno di Shakespeare perché in Shakespeare c’è tutto quello con cui ci misuriamo ogni giorno, pur non avendo la forza epica, l’oltranza, la vis pugnandi dei suoi personaggi. Dobbiamo continuare a leggerlo per ricuperare la pregnanza della parola, la sua intatta forza primigenia, svilita dall’uso furbesco e immiserito che ci siamo ridotti a fare. In lui la parola è acciaio e diamante, scintilla come se fosse appena uscita dalla fucina del primo giorno della Creazione, taglia come una spada. Distingue e illumina senza mai barare.
Shakespeare dovremmo provare a leggerlo con il testo originale a fronte, provare a tradurlo da noi con i nostri poveri mezzi per ammirare (imparare è impossibile) la sua straordinaria capacità di concentrare interi mondi, verità lancinanti, in tre parole di altissimo peso specifico. Per ogni parola sua, in italiano ce ne vogliono cinque. Arrampicarsi sui testi shakespeariani è come scalare una parete nord a mani nude. Sappiamo benissimo che non arriveremo mai in cima, ma l’esercizio è tonificante, rigenerante. Ci sono sconfitte espressive che fanno del bene, aiutano a crescere.
Alla fine di una prodigiosa stagione creativa, Shakespeare condensa e trasforma la gamma dei temi che più gli sono cari nei colori dell’arcobaleno. E’ la fiaba miracolosa de La tempesta, uno dei suoi testi oggi giustamente più rivisitati e frequentati. Ci possiamo ritrovare la dialettica tra natura e cultura, materia e spirito, innocenza e brutalità; la fascinazione del potere e il suo ripudio, la pietà e la vendetta, la fedeltà e il tradimento, i doveri del restare uomini malgrado tutto, la fermezza e la malinconia, l’amarezza e il sorriso, le dinamiche selvagge dei conflitti famigliari.
Il mondo umano è il mondo del conflitto e del disordine. Il mondo naturale è quello della riconciliazione e dell’ordine. Alla fine Prospero con la sua saggezza riesce a conciliarli. È questo tipo di magica ricomposizione che dovremmo sforzarci di emulare. Diceva Agostino Lombardo che La tempesta è una «grande conchiglia», che ad accostarla all’orecchio dà l’illusione del mormorio del mare. Tutta la vera, grande letteratura è questa illusione salvifica, che amplia i territori della conoscenza, che ci fa umani e ci solleva dalla materialità di Calibano (persino lui alla fine potrà diventare poeta). All’interno di quel mormorio possiamo cogliere la meraviglia di incanti, voci, musiche, nuvole da cui piovono ricchezze. Tutto, alla fine, svanisce e si dissolve nell’aria, perché siamo della materia di cui sono fatti i sogni. In questo Shakespeare sembra persino annunciare le smaterializzazioni dei mondi virtuali.
Prospero dichiara che la sua biblioteca costituisce per lui un ducato sufficientemente grande, ma per quanto l’uomo studi, il mondo resta governato dalle violenze del potere. Non c’è isola fuori dalle mappe che possa garantire la salvezza. Il teatro diventa lo specchio ideale di opposizioni e contrasti che senza l’intervento ordinatore della poesia resterebbero sound and fury. Quella che Shakespeare firma per nostro conto ad ogni lettura, ad ogni rappresentazione, è la pace provvisoria di cui ci dobbiamo stoicamente accontentare, facendo nostro l’amaro sorriso di Prospero.
Vivere nella tempesta significa accettare la vita tutta intera, nelle sue burrasche e nello stupore dei brevi momenti d’incantamento che ci regala. Significa accettare l’ombra e provare ad ascoltarla, a decifrarla. Significa pentirsi, perdonare, chiedere e dare misericordia, riacquistare la libertà, salvarsi, ricominciare, rinascere. Sono le parole che con Papa Francesco tornano ad essere nuove.