La Stampa 1.4.16
Quando tra la vita e la morte cresce la follia di chi si crede Dio
Così il delirio di onnipotenza ha trasformato medici e infermieri in serial killer
di Niccolò Zancan
Non
sono angeli della morte, la verità è che si credono Dio. Abitano la
terra di mezzo, dove il respiro è corto e il transito può essere davvero
breve. E loro lì, con gli occhi assenti, a decretare il destino degli
altri. Chi passerà la notte?
Il procuratore Olaf Jakhelin,
riferendosi al caso di Arnfinn Nesset, accusato della morte di 138
pazienti in una casa di riposo norvegese, disse: «Ci troviamo di fronte
ad un uomo ambizioso, che vuole il controllo completo sulla vita e sulla
morte delle sue vittime». Usava il curacito, un farmaco derivato dal
curaro. Piccoli dosi di veleno distillate giorno dopo giorno, come
l’esperimento preciso di uno scienziato. E la sua non era certo
misericordia per le sofferenze altrui, un altro dei pregiudizi sbagliati
che sempre accompagna gli infermieri assassini.
Delirio e riscatto
Uccidono
chi sta male e chi sta guarendo. Uccidono per sentirsi potenti e
riscattare loro stessi. Non è un caso che questo delirio di onnipotenza è
accompagnato spesso da dosi massicce di alcol o altre sostanze. Un
altro filo comune. Oggi a Piombino, come nel resto del mondo. Affiorano
sempre ricordi confusi. Confessioni parziali, ritrattazioni. Stati di
coscienza alterati.
Il medico della mutua Harold Shipman, meglio
noto con il soprannome di «Dottor Morte», beveva un paio di scotch
mentre compilava il certificato che sanciva «l’avvenuto decesso» delle
sue vittime. Scriveva con la calligrafia ordinata sempre le stesse
cause, «sincope» oppure «collasso». Ma era lui, sempre lui. «Di sicuro
166 casi», stando al Sunday Times. Una stima per difetto. E allora:
alcol e occhi persi. Un altro referto, ancora un bicchiere. «La mia
memoria è come la nebbia, e io ho bevuto parecchio per renderla così»
disse in una delle sue rarissime dichiarazioni Charles Cullen, il più
recidivo serial killer degli Stati Uniti. È stato condannato per
quaranta casi, ma è ritenuto responsabile di oltre trecento morti in
diversi ospedali fra il New Jersey e la Pennsylvania. «Pensavo di
aiutarli», ha detto una volta. Per poi rimangiarsi tutto. Perché non si
arriva mai ad una confessione piena. Spesso il movente resta un mistero.
Perché è indicibile.
Puoi vedere l’infermiera di Lugo Daniela
Poggiali sorridere in foto accanto al paziente che ha appena ucciso, i
pollici alzati e la didascalia curata da lei : «Brrr… mmm… la vita e la
morte… mmmmmm». Ma non saprai mai perché. Finora non l’ha spiegato.
Condannata all’ergastolo per trentotto omicidi, definita nelle carte
processuali «dispensatrice di morte» e «pericolo pubblico», lei che si
dedicava «a un’opera sistematica di eliminazione dei pazienti», ha
sempre negato tutto. In un’intervista al settimanale «Oggi», dal carcere
di Forlì, ha dettato questa risposta: «Ho sbagliato a fare quella foto,
lo riconosco, ma non ho mai ucciso nessuno».
«Mi sono divertita»
Nebbia,
sempre nebbia. Deliri e rimozione. Sonya Caleffi di Lecco, che in un
memoriale chiama i pazienti con l’abbreviazione «p.ti», ricorda sì di
averli uccisi, ma resta in superficie: «Non so capacitarmi né tantomeno
spiegare ciò che mi ha spinto ad agire in tale maniera». Era depressa,
soffriva di anoressia, assumeva psicofarmaci. Aveva tentato il suicidio,
prima di dare la morte. C’è questa contiguità costante. Un’attrazione
terribile che nessuno ha descritto bene come l’infermiera austriaca
Waltraud Wagner, in servizio al Lainz General Hospital di Vienna: «Mi
sono divertita a giocare a Dio, tenendo premuto il potere di vita e di
morte nelle mie mani». In questo suo «divertimento» era riuscita a
coinvolgere altre tre colleghe. E l’infermiere assassino Alfonso De
Martino da Frosinone, forse cultore del diavolo e ribattezzato per
questo «l’infermiere di Satana». E Angelo Stazzi che usava l’insulina
come un’arma, condannato all’ergastolo per avere ucciso cinque pazienti
in una casa di riposo alle porte di Roma. Lo diceva al telefono: «Mi
sento vicino a Dio». Per Gabriella Fazi, il pm che l’ha fatto
condannare, il suo movente era chiaro: «Provare il brivido di tenere una
vita umana nelle proprie mani. Maneggiare l’insulina come il cecchino
maneggia il suo fucile». Uccidere per il gusto di farlo.
Non sono
angeli. Sono dittatori in cerca del potere supremo, al punto che spesso
continuano a cercarlo anche quando vengono scoperti. Il Dottor Morte si è
impiccato in cella. E Charles Cullen, che non ha mai pronunciato parole
di pentimento, ha donato un rene ad uno sconosciuto che l’aveva
contattato in carcere: per sentirsi ancora una volta lui a decretare il
destino di qualcuno.