lunedì 18 aprile 2016

La Stampa 18.4.16
La corsa folle al ribasso del greggio per vedere chi cede per primo
I sauditi giocano sul prezzo basso per indebolire gli iraniani
Ma Teheran vuole vendere più barili anche a costi inferiori
di Giorgio Arfaras

A Doha non è stato raggiunto l’accordo fra i Paesi produttori di petrolio. L’oggetto dell’accordo aveva un obiettivo massimo - tagliare la produzione, e uno minimo - congelare la produzione. Nel primo caso, si sarebbe avuta una crescita del prezzo del barile, perché la sovra offerta si sarebbe velocemente avvicinata alla domanda. Nel secondo caso, si sarebbe avuta una stabilizzazione del barile sui prezzi correnti, perché la produzione sarebbe diventata pian piano eguale alla domanda che è in leggera crescita.
In assenza di accordo si dovrebbe, invece, avere un prezzo del barile debole, o molto debole. Ciò che per i «Petrostati» - ossia quei Paesi la cui fonte principale di reddito è il petrolio e quindi il suo prezzo sui mercati internazionali - è una jattura. Più precisamente è un vero problema per i Petrostati che non sono ricchi in partenza - come la Russia, l’Iran, il Venezuela, mentre è problema, alla fine, gestibile per quelli della Penisola Arabica, che hanno accumulato nel tempo delle grandi ricchezze - come i titoli di stato e le azioni delle imprese maggiori dei Paesi occidentali. Ricchezze che possono realizzare per mantenere (quasi) invariato il tenore di vita della loro popolazione. Più precisamente, i Paesi che non hanno investito una parte cospicua della «rendita petrolifera» in attività finanziarie estere perché popolosi, sono messi peggio, soprattutto se, a differenza dei Paesi delle Penisola Arabica, devono fare i conti con le elezioni.
In astratto la soluzione «ottimale» per i produttori, ossia tutti guadagnano e nessuno perde, è quella di un prezzo del petrolio elevato, grazie al quale i Petrostati meno ricchi possono finanziare il consenso politico, con quelli molto ricchi che non debbono ridurre la ricchezza che hanno accumulato. La soluzione ottimale non si è però materializzata. Perché? La ragione è lo scontro fra i sunniti e gli sciiti che si manifesta in diversi campi come scontro fra l’Arabia Saudita e l’Iran. Con il prezzo anche molto basso i sauditi (e i Paesi del Golfo) possono andare avanti vendendo le ricchezze accumulate, mentre gli iraniani non possono perché non sono ricchi in partenza. Un discorso simile a quello iraniano vale per la Russia, molto più popolosa e meno ricca dell’Arabia, che si è alleata con Teheran in Siria e ha cercato di persuadere Riad a congelare la produzione di greggio.
Con i due maggiori contendenti che hanno fatto saltare l’accordo - i sauditi hanno fin da subito affermato che senza l’Iran non si sarebbe fatto nulla, mentre gli iraniani non si sono nemmeno presentati a Doha - si passa alla fase successiva dello scontro. La guerra è classicamente definita come la continuazione della politica con altri mezzi, mentre oggi possiamo affermare che il petrolio sostituisce la guerra che è la continuazione della politica. I sauditi minacciano di usare l’arma letale di cui dispongono solo loro, ossia aumentare la produzione in modo massiccio facendo precipitare i prezzi del barile a dei livelli minimi. Gli iraniani, che da mesi stavano aumentando la produzione offrendo il loro petrolio a prezzi stracciati per recuperare i mercati persi dopo anni di sanzioni, oggi non possono che vendere più petrolio per avere gli stessi ricavi. In questa corsa al ribasso del prezzo del petrolio per vedere «chi molla» per primo, abbiamo il gioco - reso famoso dal cinema in un film con James Dean - detto «del pollo». Due contendenti corrono lungo una strada che finisce in un dirupo. Il primo che frena ha perso.