La Stampa 18.4.16
Quando i diritti umani diventano fondamento delle relazioni internazionali
di Massimiliano Panarari
Tertium
non datur. Secondo tanti (politici, studiosi e osservatori), nelle
relazioni internazionali non si darebbe una terza possibilità tra il
realismo assoluto della politica di potenza e un idealismo pacifista,
altrettanto assoluto. Vale a dire: o «falchissimi» o «colombissime». E,
invece, esiste una terza via, che potrebbe far parlare l’Occidente
europeo e americano con una sola voce, dal momento che essa affonda le
radici in una delle sue eredità culturali più essenziali e preziose,
quella dell’Illuminismo. E, ancora, in ragione del fatto che la nostra
condizione di abitanti di un Villaggio globale reso sempre più
interconnesso dalle tecnologie della comunicazione e dai media agevola
esponenzialmente la potenzialità di un’opinione pubblica su scala
mondiale o, quanto meno, plurinazionale (come sta avvenendo con la
dolorosa vicenda dell’omicidio di Giulio Regeni). Stiamo parlando
dell’affermazione della centralità, in una prospettiva globale, dei
diritti umani; una chiave sulla quale si dovrebbe reimpostare a fondo e
praticare in maniera effettuale il rapporto tra le democrazie liberali e
le autocrazie di questa nostra fase storica (un elenco, come noto,
malauguratamente nutrito, dalla Russia alla Cina, dall’Iran alla gran
parte del Medio Oriente). Fu precisamente l’Illuminismo a elaborare e
introdurre nella teoria politica una visione - e un’etica - dei diritti
dell’uomo edificata sul razionalismo e il cosmopolitismo e sulla virtù
della «mitezza» (molto cara a Norberto Bobbio). Uno dei momenti
fondativi della modernità, scaturito dalla lotta per l’emancipazione
degli individui, di cui venne proclamata l’universalità, contro l’ordine
oppressivo e i privilegi castali dell’Antico regime.
I diritti
umani, dunque, come un filamento essenziale del Dna dell’Occidente da
rivendicare nei confronti delle incarnazioni contemporanee di ciò che
due padri - tra loro agli antipodi - della sociologia (Max Weber e Karl
Marx) avevano etichettato come il «dispotismo orientale». E di fronte a
certi distinguo strumentali volti a negarne il principio stesso (e qui
il pensiero corre all’imponente castello di argomentazioni contro il
«fondamentalismo dei diritti umani» costruito dalla mente giuridica del
nazismo, Carl Schmitt).
Negli ultimi decenni il mondo
intellettuale e quello politico sono stati attraversati con forza, in
termini di riflessioni e consapevolezze, dalla «rivoluzione dei diritti
umani», la cui portata universalistica «incondizionata» è stata
ridefinita per superare talune ingenuità di tipo giusnaturalistico, ma
la cui importanza appare ora chiarissima (tanto da avere portato anche
una parte della sinistra ad abbracciare la dottrina dell’interventismo
umanitario). Universalismo «minimalista», come lo ha rideclinato lo
storico (e uomo politico) canadese Michael Ignatieff, ma comunque e
sempre universalismo, perché i diritti umani ai nostri tempi vanno
intesi in un’ottica globale.
E, da qualche tempo a questa parte,
infatti, essi rappresentano uno dei pochi esempi di «issues» che
rimandano alla possibilità di una sfera pubblica globale e di campagne
di opinione transnazionali. I diritti umani dovrebbero allora essere
considerati come un valore non negoziabile delle relazioni
internazionali, la cui tutela e salvaguardia effettive passano
necessariamente, come hanno sostenuto proprio Bobbio e Ignatieff, per il
consenso degli Stati. Ed ecco perché il parametro primario delle
relazioni internazionali e della geopolitica delle democrazie
rappresentative nei confronti degli altri Paesi dovrebbe allora
diventare la richiesta (reale e non derogabile) del loro rispetto.