La Stampa 17.4.16
Sulla costa tra Zuara e Tripoli “In cinquemila pronti a partire”
I gommoni per la traversata verso l’Italia arrivano da Cina e Turchia
di Francesco Semprini
Gli
ultimi raggi di sole vengono inghiottiti dal Mediterraneo cedendo il
passo al buio interrotto solo da flebili luci sparse sulla riviera, poi
il nulla. Un nulla lungo oltre 150 km dove, «concentrati» in hangar e
fattorie, un esercito di dannati aspetta di prendere il largo nel mare
di tenebre. Siamo sulla costa della Libia Nord-occidentale, non lontano
dal confine con la Tunisia, qui si snoda «l’hub dei migranti», il tratto
da dove le «carrette del mare» salpano verso l’Italia.
Quattromila i
soccorsi nel canale di Sicilia in soli due giorni. «Ed è ancora nulla -
ci dicono fonti locali che proprio in quest’area si occupano di
prevenzione -. Con l’arrivo dell’estate ce ne saranno molti di più».
Principalmente africani, tantissimi nigeriani, ma anche asiatici.
Siriani invece non se ne vedono da tempo. Una volta il business era
«regolato» da Gheddafi, che allargava o stringeva le maglie dei
controlli a seconda dalla convenienza. Da quando il Colonnello non c’è
più è diventato un «far west» con giri d’affari da eldorado e connivenze
con mafia locale, milizie e talvolta terrorismo.
Il business intanto
si è evoluto, a barconi e pescherecci vengono preferiti i gommoni, più
pratici e sfuggenti a radar e satelliti, gonfiati e messi a mare in un
lampo. Arrivano in container da Cina e Turchia, i big del traffico ne
acquistano decine, altri li ordinano in Egitto grazie a intermediatori.
Sono conservati in hangar sulle spiagge ad Est di Zuara: Sabratha,
Zawia, Tripoli, finanche Tajura e Garabuli, le località con maggiore
concentrazione di trafficanti. Accanto, in vecchie fattorie, è stipato
il «capitale umano», disperati che sborsano sino a 1500 dollari e
affrontano le tenebre. Una volta versata la somma diventano prigionieri,
i cellulari vengono sequestrati e devono attendere il via libera degli
scafisti. «Ce ne sono fra i 3 mila e i 5 mila già radunati sulla costa e
pronti a partire nelle prossime settimane», ci rivelano.
La speranza è
sbarcare sulla terra promessa, o essere portati in salvo dalle
motovedette italiane. Quelle libiche è meglio non incrociarle,
significherebbe tornare a riva, essere rinchiusi nei centri di
detenzione, o darsi alla macchia e provarci un’altra volta, ovviamente
pagando di nuovo. Sempre che le acque non li inghiottiscano prima.
Vincent è un ragazzone di 24 anni che quel salto nelle tenebre lo ha già
fatto una volta. Lo incontriamo nella chiesa di San Francesco a
Tripoli, punto di riferimento dei migranti di fede cristiana in fuga. Ci
sono filippini, pakistani, nigeriani e ghanesi, molti in transito prima
di ripartire verso l’Italia. Il loro calvario inizia ben prima dei
«barconi di gomma», già nei loro Paesi, e prosegue con i devastanti
viaggi che li portano in Libia attraverso il deserto.
Spesso arrivano
senza denaro, costretti a procurarsene altro per prendere il largo. È
qui che diventano schiavi. George Bugeja è vescovo coadiutore di
Tripoli, storica sede del vescovo Giovanni Martinelli, e ci racconta di
tre o quattro parrocchiani morti in mare. «Anche nell’omelia di oggi ne
ho parlato, ho ricordato le vittime del traffico di esseri umani e delle
anime in fin di vita lasciate davanti alla nostra chiesa». L’ultima è
una donna, schiava del sesso per pagarsi la fuga, la terza in pochi
giorni: «Quando si ammalano vengono scaricate qui». Il vescovo prova a
dissuadere chi vuole imbarcarsi, spiegando che le promesse di una vita
migliore sono menzogne: «Ma non è facile». Alcuni si fermano davanti
alle immagini dei cadaveri in balia delle onde, altri no. Come Vincent:
«Se torno a casa non trovo nulla, il barcone vuol dire sperare in un
futuro, comunque».