domenica 17 aprile 2016

La Stampa 17.4.16
Le incognite del Califfato indebolito
di Maurizio Molinari

Lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi mostra segnali di indebolimento strategico innescando un domino di conseguenze, militari e politiche, difficili da prevedere in Medio Oriente come in Nordafrica.
La debolezza del Califfato, proclamato il 29 giugno 2014, ha quattro indicatori. Primo: nelle operazioni di terra ha perso il controllo di Ramadi e Palmira, le uniche città conquistate nel 2015, e si trova obbligato a difendere Raqqa, Mosul e Fallujah ovvero le sue ultime roccaforti. Secondo: sta perdendo ingenti flussi di denaro a seguito dei successi dell’intelligence finanziaria americana, riuscita negli ultimi tempi a identificare singoli conti e percorsi bancari come non era finora avvenuto. Terzo: la decisione degli ex fedelissimi di Saddam Hussein, ora al servizio del Califfo, di aumentare la repressione ai danni dei civili in città come Fallujah nel timore di rivolte interne. Quarto: gli ordini impartiti dal Califfo in persona affinché volontari e «foreign fighters» anziché seguire le precedenti rotte per raggiungere i territori controllati in Siria ed Iraq optino invece per destinazioni «più sicure» in Libia, a cominciare da Sirte.
È la prima volta che il Califfato appare in concreta difficoltà, testimoniando il risultato tattico della convergenza fra le aggressive operazioni aeroterrestri condotte in Siria dalla coalizione guidata dalla Russia - e composta anche da forze del regime di Bashar Assad, miliziani sciiti e contingenti iraniani - e l’offensiva aerea della coalizione occidentale-araba guidata dagli Stati Uniti dimostratasi capace, anche grazie al contributo di Francia e Gran Bretagna, di eliminare un considerevole numero di leader jihadisti e di depositi di carburante. I pianificatori del Pentagono osservano ogni tassello di tale processo, esaminando la mole di informazioni raccolte da droni, truppe speciali ed informatori al fine di comprendere se possa portare all’implosione del Califfato. Ovvero, a rivolte dall’interno di clan o tribù sunnite di dimensioni tali da innescare la dissoluzione di Isis. Finora questi segnali però non si registrano: seppur con il numero di jihadisti ridotto - secondo le stime più prudenti è passato da 30 mila a 25 mila effettivi - e sulla difensiva, il Califfato resta in piedi. E a dimostrarlo vi sono le operazioni iniziate nell’area di Aleppo, all’evidente fine di far sapere agli avversari che la guerra continua ed ai seguaci che non è il momento di smobilitare.
Poiché la caduta dall’interno del regime dispotico di al-Baghdadi non sembra all’orizzonte, l’amministrazione Obama pianifica una forte spallata dall’esterno ovvero attacchi terrestri da parte di forze locali alleate sostenute da massicci bombardamenti in una ripetizione in grande stile dell’offensiva che portò alla caduta di Kobane, al confine fra Turchia e Siria. Nello schema del Pentagono, da quanto si apprende da fonti arabe nel Golfo, dovranno essere i contingenti ribelli arabo-curdi ad attaccare Raqqa, quelli governativi iracheni ad avanzare su Mosul e le milizie sciite ad aggredire Fallujah. Nessuno è in grado di prevedere se Isis deciderà di resistere fino all’ultimo uomo, trasformando ogni città in un campo di battaglia disseminato di trappole esplosive come a Palmira, oppure se preferirà ritirarsi nel deserto e dileguarsi per poi scegliere come e dove tornare a battersi. Ma Obama appare determinato a coordinare quest’offensiva anti-Califfato al fine di provare a chiudere i conti con al-Baghdadi prima di lasciare la Casa Bianca per togliere la macchia di Isis dalla propria eredità presidenziale. Si spiega così la crescente attenzione di Washington per il rafforzamento di Isis sulla costa libica attorno a Sirte: poiché è qui che il Califfato fa affluire i volontari è qui che deve essere colpito, per scongiurarne il consolidamento. In particolare, Isis in Libia è al momento composto quasi esclusivamente da jihadisti tunisini e nigeriani: attaccarli ora consentirebbe di prevenire la possibilità di reclutamento nelle tribù libiche. Londra e Parigi condividono tale urgenza e vorrebbero raid per fare terra bruciata ovunque c’è un’enclave di Isis. Ed anche per vendicare le stragi di Parigi e Bruxelles. Ma i disaccordi fra le capitali alleate ritardano tale scenario, trasformando il Nordafrica in un’area più accogliente per i jihadisti rispetto al Medio Oriente. E non è tutto perché la debolezza del Califfato schiude le porte ad una prova di forza in Siria fra Mosca e Washington. Si tratta della gara per arrivare primi a Raqqa con i rispettivi alleati: è una riedizione mediorientale della corsa a Berlino che nel maggio 1945 pose termine alla Seconda Guerra Mondiale.
Chiunque isserà il proprio drappo sulle rovine dei palazzi del Califfato jihadista potrà ambire all’egemonia regionale. Sulla carta ad essere favoriti sono i reparti governativi di Assad - sostenuti dai russi - perché i ribelli arabo-curdi armati dal Pentagono non hanno analoghe capacità operative. Ma poiché Obama non vuole arrivare secondo è lecito prevedere che andiamo incontro a mesi delicati.