La Stampa 17.4.16
2030, choc pensioni
Assegni a rischio per i figli del boom
In un’Italia sempre più vecchia un milione di neo pensionati metteranno in pericolo i conti Inps. L’incognita migranti
di Giacomo Galeazzi, Ilario Lombardo
Nel
2030 il sistema pensionistico italiano potrebbe implodere. È uno
scenario realistico, secondo le proiezioni che La Stampa ha analizzato
assieme a diversi esperti, incrociando previsioni demografiche e studi
sulla spesa previdenziale. Il 2030 non è una data a caso: è l’anno in
cui andranno in pensione i figli del baby boom, cioè i nati nel
meraviglioso biennio 1964-65, quando l’Italia nel pieno miracolo
economico partorì oltre un milione di bambini. Quei bambini, al
compimento dei 66-67 anni, busseranno alla porta dell’Inps. Un picco di
richieste che si tradurrà in uno choc, soprattutto se la crescita
economica rimarrà modesta. Il periodo più critico arriva fino al 2035.
Poi, se le casse dell’Inps reggeranno, anno dopo anno la situazione
dovrebbe migliorare per stabilizzarsi tra il 2048 e il 2060.
Il giallo dei numeri
Il
presidente dell’Inps, Tito Boeri, fa professione di ottimismo e
snocciola diagrammi che non vedono schizzare all’insù la spesa
pensionistica in rapporto al Pil. Una risalita ci sarà, dopo anni di
curva verso il basso, esattamente attorno al 2030. All’Inps, infatti,
ammettono che «qualche problema potrebbe esserci fino al 2032, quando il
sistema sarà tutto contributivo». Una fotografia che alimenta l’ansia
se si pensa che è tra pochi anni e che stiamo ragionando in un sistema
che è stato già stravolto dalla tanto detestata legge Fornero del 2011.
Adesso che di pensioni si è tornato a parlare quotidianamente, con varie
ipotesi di modifica per alleggerire la Fornero, c’è chi alza gli scudi e
anzi dice che quella legge potrebbe non bastare. Raffaele Marmo,
collaboratore di Maurizio Sacconi e della stessa Fornero al ministero
del Welfare, poi inventore della start up Miowelfare.it, racconta
l’urgenza in cui maturò quella riforma e avverte: «Con la disoccupazione
che abbiamo e la mancata crescita economica, in un’Italia sempre più
anziana, l’Inps rischia di saltare entro 15 anni». Marmo è poco convinto
anche delle previsioni di Boeri che sono alla base della Busta
arancione, il prospetto che consente ai lavoratori di calcolare la
pensione futura: «L’Inps presuppone il canonico 1,5% di crescita del
Pil, ma chi l’ha detto che sarà così?». Nel 2015 l’Italia è rimasta
inchiodata allo 0,8%, le recenti stime sul 2016 sono all’1,2% e il 2030,
in un certo senso, è dopodomani. Servirebbe un nuovo miracolo.
Il problema demografico
Gian
Carlo Blangiardo è ordinario di Demografia all’Università Bicocca di
Milano. Ha appena rielaborato i dati Istat in uno scenario che svela un
processo di invecchiamento inarrestabile con tutte le conseguenze che
questo comporta sulla spesa previdenziale e le inevitabili ricadute
sulle nuove generazioni. «Il rapporto tra la popolazione attiva (20-65
anni) e i pensionati si raddoppierà nel giro di una generazione. La
percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi
al 65% nel 2040 (da 1 su 3 a 2 su 3)».
Questo significa: il
doppio del carico previdenziale. A parità di condizioni, in pratica,
servirebbe raddoppiare la produttività. I 16 milioni di pensionati di
oggi aumenteranno fino a 20 milioni, in meno di 25 anni. «Tra i nuovi
pensionati e chi muore, cioè tra chi entra e chi esce dal sistema
previdenziale, c’è uno sbilancio che oggi è nell’ordine delle 150 mila
unità. Nel 2030 salirà a 300 mila e resterà tale fino a circa il 2038».
Poi comincerà a scendere il numero dei nuovi pensionati e ad aumentare
quello dei morti. Magicamente, attorno al 2048, i due gruppi si
equivarranno, finché, da lì a poco, non avverrà il sorpasso. La
spiegazione è semplice. Dopo gli anni del boom demografico del 1964-65,
l’Italia ha fatto sempre meno figli e nel 2015 ha toccato il nuovo
minimo storico dall’Unità: 488 mila nati. Sono i pensionati del futuro,
la metà di quelli che ci andranno tra 14 anni. Il problema della
sostenibilità delle pensioni si potrebbe risolvere demograficamente: «Sì
- spiega Blangiardo - sempre che prima del 2050 l’Inps non scoppi». Una
catastrofe nella quale l’Italia sarebbe già sprofondata se, come dice
la Corte dei Conti, non ci fossero state le riforme dal 2007 al 2011: la
spesa per le pensioni sarebbe stata superiore di ben 2 punti di Pil,
cioè 30 miliardi di euro l’anno per altri 15 anni. Le statistiche però
devono anche fare i conti con la vita quotidiana e le sempre minori
certezze di chi in pensione andrà nel 2030, come Sergio Bucciarelli,
baby boomer, oggi 51enne, impiegato a Fabriano in una ditta di cappe
aspiranti. «Lavoro ininterrottamente dal marzo 1989 e guadagno 2 mila
euro al mese - racconta -. La mia pensione sarà il 60% dello stipendio
quindi da vecchio stringerò la cinghia. Non potrò aiutare i miei figli e
se avrò problemi di salute non potrò curarmi al meglio». Già oggi,
secondo l’Inps il 63% degli assegni è fermo sotto i 750 euro al mese.
Sui
numeri complessivi del sistema, che è ancora misto (retributivo e
contributivo), e sulla sua tenuta ci sono letture divergenti. Chi, come
gli artigiani di Mestre (Cgia) dice che nonostante gli sforzi la spesa
pensionistica è sfuggita alla spending review ed è salita solo
nell’ultimo anno di 3,1 miliardi. E chi propone invece di allentare le
rigidità della Fornero attraverso varie ricette. Per esempio, la
flessibilità in uscita: è il cuore di due proposte, una di Boeri,
l’altra del presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare
Damiano, Pd, ex ministro autore della riforma del 2007. La prima prevede
fino al 9% di decurtazione e un’uscita dal lavoro dai 63 anni e 7 mesi
in poi con disincentivi. Applicandosi solo alla quota retributiva, se
quest’ultima scende la penalizzazione è minore (4,5%). Per le coperture,
Boeri ha pensato a un contributo di solidarietà sulle pensioni più
alte. Damiano, invece, propone di uscire anche un anno prima (62 anni e 7
mesi) con un taglio del 2% l’anno fino a un massimo dell’8%.
Entrambe
le soluzioni si basano sul presupposto che i costi a breve saranno
compensati dai risparmi futuri. Ma nessuna delle due convince Giuliano
Cazzola, economista, tra i massimi esperti di previdenza, strenuo
difensore della Fornero: «Ci vorrebbero 50 anni per ammortizzare queste
operazioni. Non peggiorerei le cose e comincerei a pensare ai giovani e
agli occupati, che sono la classe contributiva, purtroppo ancora debole,
del futuro». Il conflitto tra generazioni è già in corso. Se n’è
accorto Ivan Pedretti, segretario generale dei 3 milioni di pensionati
della Spi-Cgil che di fronte all’inevitabilità della Fornero è convinto
che la soluzione non sia la sua totale abrogazione, ma correttivi
precisi. Come sui lavori usuranti e ancor di più sui requisiti
anagrafici agganciati alla speranza di vita: «Se il contributivo nasce
con la logica del “prendo quanto verso”, non spetta allo Stato decidere
quando mandare in pensione il lavoratore. Permettete che lo decida
lui?». In effetti è un paradosso. Però Pedretti fa anche mea culpa:
«Anche noi abbiamo permesso una transizione troppo lungo dal retributivo
al contributivo».Il tabù Fornero deve essere affrontato senza
ideologismi. Anche secondo Cazzola è necessaria una rivalutazione dei
requisiti anagrafici legati all’aspettativa di vita. «Altrimenti, si
arriverà a 45 anni di contributi». L’Italia è già in cima alla
classifica Ue delle soglie stabilite per la pensione, però è di ben 5
anni sotto la media europea per la permanenza sul mercato del lavoro (10
in meno rispetto all’Olanda). Un divario che per le donne è
inequivocabile: la durata media è sotto i 25,5 anni.
Il Paese
sconta una storia nota, di privilegi e pensioni usate come arma
politica, che ancora pesa sui conti e trasferisce sui più giovani un
carico insopportabile. «Sì, ma bisogna stare attenti - continua Cazzola -
siamo l’unico Paese che usa il sistema pensionistico per fare politiche
occupazionali». Il riferimento è a uno studio di Boeri presentato alla
Bocconi a gennaio che lega la riduzione delle assunzioni al forte
aumento dell’età pensionabile imposto dalla Fornero. «Se la quota di
posti bloccati è al 5% - sostiene Boeri - il tasso di assunzioni scende
al 6%». E così via. In una situazione di crisi economica, la convinzione
del presidente dell’Inps è che il turnover potrà far crescere
occupazione e produttività.
Fisco e immigrati
Una delle
proposte alternative che si sta facendo largo ribalta l’impostazione
sulle pensioni. Da un sistema previdenziale a uno più assistenziale
finanziato in parte dalla fiscalità generale. In commissione Lavoro alla
Camera giace una proposta di legge a firma Marialuisa Gnecchi (Pd) che
prevede una pensione di base di 442 euro, a cui si aggiunge quella
maturata dal lavoratore con il contributivo. Sarebbe un salto culturale
verso un sistema che tiene conto del mercato del lavoro di oggi e di
domani. È uno sforzo che chiedono anche i fiscalisti italiani. Tra loro,
Raffaello Lupi, docente di diritto Tributario: «Bisogna inventarsi un
nuovo welfare. La gestione della terza età si deve trasformare in una
delle tante funzioni pubbliche, come sanità e istruzione». Gli over 95
passeranno dai 150 mila di oggi a quasi 1,3 milioni del 2063. Alla
flessibilità in uscita vanno affiancate formule di pensionamento attivo.
Il demografo Blangiardo ha calcolato che se fossero valorizzate le
persone tra i 65 e i 75 anni, con un attività light capace di essere
monetizzata in 5 mila euro l’anno di media, avremmo tra il 2016 e il
2020 33 miliardi di euro in più ogni anno, tra il 2021 e il 2040, 40
miliardi. C’è chi guarda con speranza anche a chi arriva da fuori. È il
fattore immigrazione che spacca l’opinione pubblica e anche gli
studiosi. È un’ancora di salvezza o un’ulteriore zavorra? Blangiardo lo
chiama «invecchiamento importato» convinto che i giovani immigrati diano
solo una boccata di ossigeno ai conti dell’Inps con i loro contributi,
ma che non siano una soluzione definitiva al calo della popolazione
attiva, «perché anche loro invecchieranno e riceveranno in cambio la
pensione». Boeri invece sostiene che il loro aiuto sia determinante. In
futuro, quando varrà solo il sistema contributivo, il riequilibrio
coinvolgerà anche gli stranieri che prenderanno quanto versato. Intanto,
l’Inps calcola che il 21% degli immigrati già in pensione secondo le
regole italiane, e che in gran parte tornato nei Paesi d’origine, non ha
ricevuto gli assegni previdenziali. Un tesoretto di contributi lasciati
all’Italia di 16 miliardi di euro. In vista del 2030, non si butta via
nulla.