La Stampa 16.4.16
Il Pil cinese a +6,7%, il minimo da 25 anni, ma ci sono spiragli di ripresa con l’export
Gli analisti: Pechino rischia una serie di crac delle banche
di Cecilia Attanasio Ghezzi
Il
primo trimestre del 2016 la Cina è cresciuta del 6,7%. In lieve calo
rispetto al 6,8 registrato nel 2015, si attesta nella forbice di
crescita indicata dal governo. L’obiettivo dichiarato è di non scendere
sotto il 6,5 prima del 2020. Sono in molti a tirare un sospiro di
sollievo anche a seguito della recente impennata delle esportazioni
(+6,8%) in controtendenza rispetto agli ultimi otto mesi. Rispetto allo
stesso trimestre del 2015, crescono anche gli investimenti industriali,
quelli in infrastrutture (+10,7%) e i consumi (+10,5%). In questo primo
trimestre la Cina ha contribuito alla crescita globale quanto, se non di
più, degli Stati Uniti. Ma la crescita del Pil è comunque la più bassa
degli ultimi 25 anni. E se si considerano il movimento di merci, i
consumi di elettricità e i prezzi all’ingrosso – fanno notare gli
analisti più scettici – ci sono i segnali per parlare di una crescita
molto più bassa di quella dichiarata. Si tratta di stime, perché nessuno
sa esattamente come il Pil del Paese venga calcolato. Una cosa è certa:
il modello economico cinese che ha portato la Cina a diventare la
seconda economia mondiale non funziona più. Milioni di lavoratori
dell’industria pesante e della manifattura stanno perdendo il lavoro e
ancora non è chiaro come verranno ricollocati. Soprattutto bisognerà
vedere se i nuovi settori dei servizi e del mercato interno riusciranno a
fare da traino.
Pechino spera nella ripresa e cerca di evitare la
politica di stimoli massicci che aveva sperimentato con ottimi
risultati, anche se a breve termine, durante la crisi del 2008. Ma le
banche a marzo, nonostante l’alto rischio di inesigibilità, hanno
espanso la possibilità di credito a 180 miliardi di euro, quasi il
doppio del mese precedente. Nessuno per il momento teme il fallimento
dei singoli istituti perché sono spalleggiati direttamente dal governo,
ma il rischio che l’intero sistema si inceppi è alto. Dall’inizio del
2009, i prestiti concessi da banche e governi locali sono più che
triplicati arrivando alla cifra record di oltre 13 mila miliardi di
euro. Si tratta del 144% del prodotto interno lordo della Repubblica
popolare. E come ha sottolineato Goldman Sachs a gennaio, i Paesi che
sono incappati in questa situazione si sono poi trovati ad affrontare o
una crisi finanziaria o un prolungato rallentamento. Gli economisti si
aspettano una serie di fallimenti nei mesi a venire.
Detto questo
sono già un paio di anni che la Repubblica popolare si confronta con
problemi strutturali che la mettono a dura prova. La popolazione in età
da lavoro sta invecchiando, la disoccupazione aumenta ed è calata la
mobilità sociale. Arrancano l’industria pesante e la produzione di beni a
basso costo che l’ha resa famosa come fabbrica del mondo. Ma siamo di
fronte alle difficoltà di un’economia in transizione. Altri segnali
fanno ben sperare. Se terziario e consumi dovessero veramente decollare,
il rallentamento dell’economia sarà dolce anziché brusco.