La Stampa 16.4.16
Il doppio fronte del premier
di Giovanni Sabbatucci
L’iniziativa
del governo sul cosiddetto immigration compact, ovvero su un organico
pacchetto di misure da proporre all’Ue per affrontare la questione dei
migranti, è in sé utile, anzi necessaria.
Ma può anche aiutare il
premier a spostare il centro del confronto politico dal terreno
scivoloso delle trivelle a quello della condivisione europea di carichi e
rischi legati alla nuova incombente ondata migratoria. Il collegamento
può sembrare malizioso. Ma in Italia accade sempre così: ogni volta che a
occupare la scena è un leader dalla forte personalità, il dibattito
tende a spostarsi dal merito delle questioni sul tappeto al giudizio sul
leader e sulle sue
intenzioni riposte, alla scelta secca fra il campo dei favorevoli e quello dei contrari.
E poco conta se tutto ciò comporta evidenti contraddizioni e repentini cambi di opinione.
Un
caso esemplare in questo senso è quello del centro-destra berlusconiano
nella versione «di lotta» incarnata dal capogruppo alla Camera Renato
Brunetta. I dirigenti di Forza Italia non hanno fatto particolari sforzi
per inventare argomenti polemici contro Renzi e il suo governo: si sono
limitati a riprendere senza significative variazioni il repertorio
delle accuse lanciate per un ventennio da sinistra contro il loro capo
(autoritarismo conclamato, tirannia della maggioranza, attacco alla
Costituzione, occupazione degli spazi mediatici, persino conflitto di
interessi) e a riutilizzarlo tale e quale contro il presidente del
Consiglio. E il patto del Nazareno? E la trionfale, concorde rielezione
di Giorgio Napolitano alla presidenza? E il Comitato dei saggi? Tutto
dimenticato, tutto cancellato senza nemmeno un filo di autocritica.
Meno
clamorose, ma non meno serie, le contraddizioni degli antirenziani di
sinistra, in particolare di quelli che restano nel Pd. Non condividono
quasi nulla dell’impostazione culturale di Renzi, del suo modo di
operare e di atteggiarsi. Ma non vogliono spingere il loro dissenso alle
estreme conseguenze (l’uscita dal partito) e non possono vantare al
loro attivo prove elettorali vincenti. Allora criticano riforme (legge
elettorale e nuovo Senato) di cui hanno inizialmente condiviso
l’impianto e che hanno votato nelle occasioni decisive; e si accaniscono
su proposte di modifica troppo marginali e troppo tardive per non
essere sospettate di strumentalità; infine cavalcano un quesito
referendario di non facile comprensione. Il tutto allo scopo evidente di
dare qualche spallata al leader. Non tutti hanno la lucidità necessaria
per tenere distinti i due piani. All’esempio di Romano Prodi e della
sua posizione indipendente sul referendum-trivelle, aggiungo quello di
Enrico Letta, che (uso un eufemismo), non ha speciali motivi di
gratitudine nei confronti di Renzi: ma, intervistato da questo giornale,
non ha esitato ad annunciare il suo voto favorevole alla riforma
costituzionale il prossimo ottobre.
Riforma che, come tutte, può
essere criticata, ma non andrebbe usata per scopi impropri in un senso o
nell’altro. In una democrazia normale la sorte del governo Renzi non
dovrebbe dipendere né da un referendum né da un turno amministrativo
parziale. Dovrebbe essere decisa in una normale elezione politica,
meglio se alla scadenza regolare, oppure da un voto di fiducia del
Parlamento. Nell’attesa di uno di questi eventi, un po’ più di coerenza e
un po’ di maggiore attenzione al merito dei problemi certo non
guasterebbero.