La Stampa 14.4.16
Al Sisi difende i Servizi e attacca
“Il caso Regeni creato dai media”
Il presidente accusa i mezzi di informazione egiziani di aver innescato il “problema”
L’ex capo delle “SS”: inspiegabile la reazione italiana, ci sono milioni di delitti irrisolti
di Francesca Paci
Cosa
contiene l’ultimo discorso del presidente Al Sisi al di là della difesa
dell’intelligence egiziana e dell’attribuzione dell’omicidio Regeni a
«gente malvagia»? A leggere il suo intervento con un docente di
giornalismo e una sociologa dell’American University del Cairo (Auc), il
campus nel deserto dove studiava il ricercatore friulano, emergono dei
messaggi che raccontano più della reiterata retorica sul Paese sotto
attacco. Questa volta Al Sisi anziché puntare l’indice chissà dove si
rivolge ai suoi connazionali e lo fa usando un linguaggio colloquiale:
quando dice «siamo noi che abbiamo creato un problema all’Egitto con la
morte di Regeni» parla del popolo e non del governo a cui invece fa
sempre riferimento esplicito, quando dice «egiziani, state diventando
difficili e avete preso a dubitare di qualsiasi cosa» parla delle
crescenti critiche interne di cui è oggetto, quando dice «tanti di noi
sui giornali e suoi social media hanno accusato i servizi orientando la
stampa straniera» parla della pressione a cui il regime è sottoposto da
quando anche i media governativi hanno iniziato a chiedere la fine dei
depistaggi e l’ammissione delle responsabilità egiziane.
La «gente
malvagia» insomma sono gli oppositori, «i soliti nomi noti» che il
superpoliziotto Fouad Allem, nella sua casa a Moandessin, indica come
colpevoli della crisi con l’Italia. Allem, ex capo della State Secutiry
con il grado generale, pare sinceramente stupito dalla posizione ferma
di Roma: «Non riesco a capire perché l’Italia abbia reagito fino al
punto da richiamare l’ambasciatore, ci sono milioni di delitti irrisolti
nel mondo. E poi, quale servizio lascerebbe ritrovare il corpo in quel
modo? Il cadavere avrebbe potuto sparire nel deserto o nel mare. Ad
accusare la sicurezza sono stati quei pochi gruppi egiziani pagati
dall’estero che pretendono di occuparsi dei diritti umani ma hanno altri
interessi, li conosciamo nome per nome».
Se nelle università e
nei caffè più riservati la mobilitazione per Regeni non accenna a
diminuire, il regime sembra a tratti disorientato, come se davvero non
comprendesse perché Roma se la prende tanto per quello che molte delle
autorità locali definiscono «l’incidente». Da una parte fa quadrato e
ripete di essere cristallino, come ci spiega il generale ed ex direttore
dell’accademia militare Zakaria Hussein «all’inizio qualcuno di noi ha
fatto dichiarazioni irresponsabili ma ora vogliamo la verità».
Dall’altra ha stretto la morsa sulla «gente malvagia». Racconta un
docente dell’Auc e conoscente di Regeni che nelle ultime settimane la
situazione si è fatta ancora più pesante: «Il mese scorso la rivista
dell’ateneo Auc Times ha pubblicato un articolo sull’omosessualità, è un
periodico a limitata circolazione interna ma un parlamentare di Minia
ha chiesto di indagare lo studente autore. Ne è nato un ciclo di accuse
televisive contro l’Auc in seguito alle quali un mio collega ha lasciato
il Paese interrompendo il semestre in corso perché non diceva di non
voler essere il prossimo “Regeni. Non c’era in ballo Giulio, ma da dopo
la sua morte sentiamo il fiato sul collo».
Ecco allora il contesto
nel quale arriva l’ultimo discorso di Al Sisi, un Paese diviso non solo
tra regime e opposizione ma anche tra pezzi del regime che sembrano
faticare sempre più a restare compatti. Ieri sera i social network
egiziani rilanciavano i tweet in cui il direttore
dell’InternationalTribune.net Mahmoud Refaat sosteneva «con fonti certe»
che la notte precedente l’intelligence militare avrebbe arrestato
diversi ufficiali dell’esercito «in un’operazione durata dalle 2 alle 4
di notte». Oltre al caso Regeni c’è poi una grande agitazione contro le
due isolette «cedute» dal presidente all’Arabia Saudita in cambio di
aiuti economici, un tam tam alla protesta tale che l’attivista anti
regime Eman el Haradi si chiede se «sia un affare gestito dai servizi
per mobilitare il popolo come già all’epoca della cacciata di Morsi».
Cairo
è in queste ore una città di bisbigli, sguardi circospetti, incontri
diversissimi da quando dopo la cacciata di Mubarak la capitale egiziana
sembrava l’avanguardia del ’68 arabo. Il giornale «Attharir», nato nel
2011, contava allora almeno 20 di editorialisti under 30: sono quasi
tutti emigrati o detenuti, i due superstiti ricevono regolari telefonate
anonime in cui vengono «diffidati» dal criticare il governo. Il
presidente Al Sisi, a ridosso della visita in cui il presidente francese
Hollande gli chiederà anche del ricercatore italiano, ripete le sue
condoglianze alla famiglia Regeni e la promessa di scoprire la verità,
ma soprattutto mette in guardia gli egiziani.