La Stampa 13.4.16
Quelli che tra il Duce e la Resistenza aspettavano che passasse la “nuttata”
Un libro di Carlo Greppi apre squarci di luce sulla “zona grigia” e le sue strategie
di Giovanni De Luna
Arriva
la polizia e si porta via il vostro vicino. Può essere un ebreo, un
partigiano, uno qualunque. Vi siete mai chiesti cosa avreste fatto se,
tra il 1943 e il 1945, nell’Italia occupata dai tedeschi, vi foste
trovati anche voi in una situazione di questo tipo? Avreste applaudito
ai carnefici? Cercato di aiutare le vittime? O avreste «guardato»,
scrutato da una finestra, aspettando la fine della guerra convinti che
il vostro ruolo sarebbe stato sempre e comunque quello di «spettatori»?
La ricerca dell’anonimato
In
quei due anni, milioni di persone hanno vissuto aspettando che la
«nuttata» passasse, schiacciate tra il consenso e la paura, tra il
coraggio e la vergogna di «vivere tempi che sarebbero stati giudicati».
Sono gli uomini e le donne che popolano una zona grigia sospesa tra le
vittime e i carnefici; un pezzo di umanità che è certamente esistita ma
che, dal punto di vista storiografico, ha assunto i contorni incerti di
una nebulosa difficile da decifrare. I carnefici hanno lasciato una
documentazione sterminata delle loro nefandezze; le vittime anche, delle
loro sofferenze. Ma gli spettatori? Non uno slancio di protagonismo,
una impennata: solo la ricerca ostinata di un anonimato destinato a non
lasciare tracce, a nascondere, a mimetizzare.
Alla «zona grigia» è
dedicata una parte de I sommersi e i salvati di Primo Levi (che ne
sottolinea «il contagio di un potere che cerca complicità anche tra i
perseguitati»); la «zona grigia» di quelli che «non scelsero» da che
parte stare è stata celebrata da uno storico come Renzo De Felice ed è
stata esaltata dalla pubblicistica revisionista; sulla «zona grigia»
erano calati gli anatemi dei partigiani combattenti che ne
sottolineavano un opportunismo e una viltà di fondo. Pure, in tutte
queste definizioni restava sempre qualcosa di inafferrabile, dovuto
proprio all’assenza di tracce documentali, testimonianze dirette in
grado di forzare una pesante cappa di silenzi e dissimulazioni.
Vittime e carnefici
Ora
un giovane storico italiano, Carlo Greppi, ci ha provato con un libro
coraggioso e innovativo, Uomini in grigio, storia di gente comune
nell’Italia della guerra civile (in uscita domani per Feltrinelli, pp.
377, € 29), che apre ampi squarci di luce in quella nebulosa. I
documenti sui quali si fonda la sua ricerca sono i fascicoli dei
processi avviati contro i collaborazionisti nei giorni immediatamente
successivi al 25 aprile 1945. In passato questi archivi erano stati
esplorati soprattutto in chiave giudiziaria, contribuendo a spiegare la
mancanza di una Norimberga italiana. Greppi li ha invece studiati con un
taglio quasi antropologico, restituendo a quel grigio i colori vivi di
un’umanità scrutata senza indulgenze, ma anche senza furori vendicativi.
A risaltare, così, è una «strategia della sopravvivenza» ingenua,
furbesca, rassegnata, cinica, ma comunque sempre riconoscibile in tutte
le giravolte, i compromessi, le contraddizioni che segnano una
sconfinata voglia di vivere, di tenersi al riparo dalle bufere della
grande storia per continuare a consumare il più possibile la propria
piccola storia.
Gli uomini e le donne che si inseguono nelle
pagine del libro intrecciano i percorsi più diversi. Anche chi è
indiscutibilmente vittima e chi è indiscutibilmente carnefice appaiono
circondati da una folla di personaggi che rendono più sfumati i loro
ruoli, meno netti i loro confini di appartenenza.
Antonio M., ad
esempio, è un brigadiere della Guardia nazionale repubblicana, «un uomo
che non dava ordini, li eseguiva, e che fu incriminato per le sue
azioni». Alla fine della guerra, il suo processo per collaborazionismo
diventa una sorta di palcoscenico per la «rappresentazione» della zona
grigia: i testi dell’accusa e quelli della difesa lo fanno rimbalzare di
volta in volta nelle file dei carnefici o in quelle di chi si è
impegnato a soccorrere le vittime: aveva arrestato e torturato
partigiani; no, aveva aiutato famiglie ebree e si era adoperato per
lenire le sofferenze dei detenuti nella caserma torinese di via Asti.
Intorno a lui si muove una folla di portinaie, operai, avvocati più o
meno loschi, partigiani o sedicenti tali, aguzzini dichiarati, un
sacerdote bastonatore (don De Amicis), disertori, gente normale,
delatori, spie, eroi della Resistenza (Carlo Pizzorno).
Italo
Momigliano è invece un ebreo, destinato alla deportazione e alla morte
nel Lager. Una vittima, quindi, che debutta nel libro attraverso le
lettere che scrive a Regina, sua moglie, nel giugno del 1940, da una
Parigi appena occupata dai tedeschi, restituendoci una lenta discesa
agli inferi alla quale porrà termine ritornando a Torino per incontrare
qui, sulla collina, il suo terribile destino: «in Italia […] sarò in
patria e potrò far valere la mia qualifica di ex combattente al fine di
trovare lavoro in condizioni di parità», scriveva il 14 gennaio 1942,
comunicando a Regina la sua tragica illusione.
Un’ombra lunga sul futuro
Il
carnefice di Momigliano, quello che riesce a stanarlo e a catturarlo, è
una spia, Antonio Franzolini, nome in codice K9: è arrivato a Torino da
Udine per continuare il suo mestiere di cacciatore di ebrei. Nella
terra di mezzo, tra Momigliano e Franzolini, ci sono i luoghi della
tortura e dell’attesa (la caserma di via Asti della Gnr o le carceri
Nuove), i fascisti integrali (il federale Giuseppe Solaro) e quelli che
tirano a campare, tanti, tanti campioni del doppio gioco e della
trattativa a cui si lega la sorte di Momigliano. Nel marzo del 1944,
Gastone Serloreti, capo dell’Upi, in cambio della revoca da parte del
Cln della sentenza di morte emessa contro di lui, si impegnò a far
cessare le sevizie contro i detenuti di via Asti.
Alla fine, tutte
queste figure, anche le più sbiadite, tendono ad assumere una loro
fisionomia. E la «zona grigia» si materializza, acquista concretezza
storiografica, proiettando la sua ombra lunga sull’Italia del
dopoguerra. Veramente i venti mesi della Resistenza furono troppi per i
lutti e le sofferenze da cui furono segnati, ma furono troppo pochi per
riuscire a scalfire il peso di comportamenti che appartenevano a
un’Italia profonda, ansiosa solo di tranquillità e di un sollecito
ritorno alle abitudini di sempre, senza più nessuno a disturbare gli
«spettatori».