il manifesto 13.4.16
Il corpo potenzialmente eversivo
Disability
Studies. Un’anticipazione dal libro «Tipi umani particolarmente strani.
La sindrome di Asperger come oggetto culturale», per Mimesis. Un
percorso interdisciplinare che guarda all’autismo da differenti
prospettive
di Enrico Valtellina
Il livello della
distinzione tra tipi naturali e tipi umani non è nell’essere i primi
scoperti e i secondi costruiti, quantomeno, non è il piano che interessa
Ian Hacking, quando lo problematizza per proporre il discrimine
essenziale, consistente nel fatto che i tipi umani sono individuati in
un orizzonte valoriale: «Tipi umani sono i tipi che le persone possono
volere essere o meno, non per raggiungere un fine, ma perché hanno
valore morale intrinseco». Hacking nota come l’assunzione o la
proiezione di una tipologia umana venga a risignificare la vita degli
individui, tanto nel presente quanto nella lettura della propria vita
precedente.
L’esposizione dell’esperienza esistenziale delle
persone autistiche attraverso testi auto-bio-patografici, che Donna
Williams chiama «autibiographies», esplosa in una produzione editoriale
straordinariamente florida (si pensi che esistono editori specializzati
come Jessica Kingsley Publisher, con un catalogo di centinaia di titoli
esclusivamente a tema autismo), ha contribuito a ridefinire i caratteri
dell’autismo, non solo a livello culturale, sedimentando consapevolezze a
livello pubblico sulla realtà della condizione, ma anche in quanto
patologia codificata dal pensiero psichiatrico. Comportamenti
determinati attraverso una griglia interpretativa codificata, in questo
caso i criteri del Dsm. Le autobiografie autistiche spiazzano tutto lo
spettro di metafore sul vuoto, sulla mancanza di interiorità, fortezza
vuota, conchiglia vuota, rivelandone la complessità della vita
interiore, e la non riconducibilità di questa ad alcuna
caratterizzazione generalizzante, Hacking ribadisce ad ogni occasione
che conoscere un autistico significa conoscere quell’autistico e non già
l’autismo.
Metafore non innocenti
Lo sguardo genealogico di
Ian Hacking si interroga sulla relazione tra l’autismo e il tempo della
sua emergenza, sulle ragioni per cui attualmente si assiste a
un’iperproduzione culturale sul tema, quando venticinque anni fa era
completamente assente, a ciò dedica l’articolo Autism Fiction: A Mirror
of an Internet Decade? (2010). Oltre al proprio lavoro, Rewriting the
soul, sulle personalità multiple e I viaggiatori folli (1995, 1998),
patologie fortemente radicate nel loro tempo, ricorda come la
tubercolosi fosse caricata di valenze metaforiche nel XIX secolo, e così
il cancro (e l’Aids), come dalle analisi di Susan Sontag (1988, 1989).
Come traspare dal titolo, è evidente per l’autore il legame tra
l’emergenza dell’attenzione culturale per le disabilità relazionali e il
tempo della comunicazione globale. Su questo tema hanno scritto in
molti, Harvey Blume (2004) sostiene un’omologia tra la scrittura Braille
per i ciechi e internet per gli autistici, Judy Singer (1998), sostiene
che la comunicazione mediata dalle tecnologie abbia permesso il
costituirsi di una comunità, come avvenne a fine Settecento con la
diffusione del linguaggio dei segni tra i sordi.
In un famoso
articolo su Wired del 2001, Steve Silberman parlava dell’As come della
sindrome dei geek, e Alan Turing, inventore del modello simbolico di
tutti i computer pensabili, era certamente disabile relazionale secondo
le coordinate dell’As, e questi sono solo alcuni degli infiniti
riferimenti possibili al rapporto tra il tempo della centralità della
comunicazione mediata dalle tecnologie, la contemporaneità, e
l’esposizione culturale delle problematiche relazionali. Ad un tempo
vincolato nella comunicazione in presenza e favorito dalla relazione
mediata dal mezzo tecnico, l’autistico viene ad assumere qualcosa come
una centralità simbolica, effettivamente come i sordi, secondo Lennard
Davis, a fine Settecento, con la scoperta del linguaggio dei segni.
Hacking affronta la questione da una prospettiva limitata, quella della
proliferazione delle narrazioni sull’autismo, e della sua correlazione
alla comunicazione mediata dalle tecnologie: «Si incontra l’idea che
l’autismo sia la patologia del nostro decennio. Susan Sontag è
solitamente dimenticata come fonte e sorgente di questa linea di
pensiero. L’idea non mette in discussione la realtà dell’autismo, non
più di quanto la Sontag metta in dubbio la realtà del cancro. Suggerisce
solo che l’aumento della consapevolezza dell’autismo può riflettere
alcune caratteristiche più generali del nostro tempo».
La
ricognizione di alcuni testi tra cui Microserfs e Jpod di Douglas
Coupland, lo porta a sostenere che il senso primario del rapporto tra
autismo e tecnologie non sta, differentemente da quanto affermato da
Silberman (2001), nel fatto che chi lavora nelle tecnologie manifesta
tratti autistici, cosa che può essere vera ma non determinante, bensì
nella funzione d’uso degli strumenti, la loro capacità di filtrare i
livelli problematici dell’interazione in presenza, creando lo spazio per
modalità di interazione sostenibili. La funzione abilitante di
internet, i suoi potenziali eversivi rispetto ai canoni dell’interazione
in presenza, propizia spazi di inclusione e la possibilità di creare
orizzonti affermativi condivisi.
Neurodiversità e riduzionismi
L’ancoraggio
dell’autismo al tempo presente si manifesta anche nella sinergia con
altre evenienze specificamente contemporanee. «Neuro» è il prefisso più
rinomato del nuovo millennio, una delle ragioni più eclatanti di tale
fortuna è stata l’avvento delle tecnologie di neuroimaging: la
possibilità di visualizzare delle dinamiche nel cervello ha attivato
itinerari di ricerca neuroscientifica prima impensabili.
Progressivamente si è affermata, anche a livello culturale più vasto,
un’attenzione per il cervello come luogo esplicativo privilegiato.
Francisco Ortega ha dedicato ricerche importanti a tale fenomeno, alle
sue espressioni su differenti piani culturali, e a come la dominante
interpretativa cerebrale sia diventata l’ancoraggio per delle
bioidentità. Bioidentità è una identità strutturata su caratteri
somatici, nello specifico la bioidentità neuro si costituisce come
soggetto cerebrale.
Il soggetto cerebrale, esattamente in ragione
del suo riduzionismo biologico costitutivo, si presta ad essere il
cardine di agglutinazioni biosociali, brainclubs in cui il cervello
viene ad essere l’omologo del corpo del culturista, con gare di
performance mentale, neurocomunità, e gruppi di auto aiuto legati a
specifiche condizioni come Parkinson, Adhd, e autismo. In particolare la
svolta interpretativa fondamentale che ha portato all’individuazione
dell’autismo come disturbo generalizzato dello sviluppo, realizzata
nella terza edizione del «Dsm» (quella che ha segnato il riorientamento
del manuale in senso biologista), ha posto le basi per
un’interpretazione dell’autismo in termini di differenza cerebrale,
different wiring, nei termini di Harvey Blume, neurodiversità, in quelli
di Judy Singer e di molto dell’attivismo autistico delle ultime decadi.
Sul riduzionismo al cervello si erano poste le basi per un piano auto
affermativo a carattere identitario, nello spirito del minority model
americano. Ortega ne approfondisce i caratteri e coglie la natura
paradossale della pretesa di costituire una comunità su tale
riduzionismo al cervello: «Sembra che la neurodiversità possa essere
fatta valere come valore solo quando si incorpora in una comunità, ma la
comunità agisce in modi che ovviamente vanno al di là del funzionamento
del cervello individuale ed eccede i limiti posti dal concetto stesso
di neurodiversità. Essere critici nel quadro dei Critical Autism Studies
implica essere consapevoli di questo paradosso, dei suoi punti di forza
e dei suoi limiti, e l’essere attenti al fatto che le metafore non sono
mai innocenti, e le metafore cerebrali lo sono ancora meno».
Il
termine neurodiversità è servito come attrattore interno alla retorica
emancipativa, come matrice di un piano rivendicativo comune. Svincolato
dall’affermazione di un determinismo biologico che ne è stato ad un
tempo la condizione di possibilità e il limite macroscopico, in mancanza
di alternative, neurodiversità rimane ora come piano generico di
affermazione della legittimità di uno spettro di specificità e delle
istanze di chi subisce disabilità relazionale. Il suo uso corrente si
sta spostando dal piano delle politiche identitarie a un più debole ma
senz’altro più praticabile e positivo piano autoavvalutativo.
Lo specchio anomalo
In
uno spirito che evoca i tempi gloriosi di Gall e Spurzheim, negli
ultimi decenni si sono succedute teorie sulle localizzazioni cerebrali
dell’autismo, di volta in volta la colpa è dell’ippocampo,
dell’amigdala, della prevalenza di materia bianca, dei vincoli nelle
connessioni tra gli emisferi, ma negli ultimi anni un potere esplicativo
particolare viene riservato a una scoperta di due ricercatori
nazionali, Rizzolati e Gallese, cui viene riconosciuto di avere
individuato una tipologia specifica di neuroni, i neuroni specchio, che
si attivano come se stessimo compiendo un’azione nel momento in cui
vediamo qualcun altro realizzarla, cosa che ha eletto la scoperta a
nuova chiave cerebrale dell’«empatia». Il raccordo all’autismo è stato
immediato, anche in ragione delle meravigliose risorse evocative della
metafora dello specchio (si pensi alla fase dello specchio, alla teoria
estetica del rispecchiamento), sono proliferate quindi interpretazioni
dell’autismo in termini di disfunzionamento del sistema mirror.
Negli
anni sono apparsi numerosi lavori a tema, da divagazioni giornalistiche
in spirito new age che magnificavano la scoperta a serissimi lavori di
neuroscienziati come Ramachandran (ma sono molti gli articoli che ha
dedicato al rapporto tra autismo e neuroni specchio). Dopo qualche anno
di entusiasmo per i neuroni specchio, fenomeno che ha riportato sulla
breccia i discorsi vecchi e confusi sull’empatia e l’autismo, ricerche
recenti sembrano mostrare che il sistema mirror negli autistici non
funzioni poi diversamente da tutti gli altri (tra i molti, Hamilton,
2013). Un’altra ipotesi «neuro» sta per essere dismessa.