La Stampa 13.4.16
Cambiare la Costituzione è doveroso, ma non così
di Ugo De Siervo
Vari
commentatori hanno messo in rilievo il clima inadeguato delle ultime
riunioni della Camera che hanno portato all’approvazione definitiva
dell’importante delibera parlamentare che modifica tanta parte della
nostra Costituzione: ci si è arrivati attraverso contrasti frontali e
addirittura con l’uscita dall’aula parlamentare di una parte rilevante
dei deputati, senza alcuna modificazione dei testi precedenti.
E
addirittura senza alcun dialogo fra le diverse opinioni emerse in
Parlamento e che sono ormai dibattute anche fuori dai circuiti politici.
Tutto viene minacciosamente rinviato all’esito del referendum del
prossimo autunno, con la pericolosa prospettiva di farne solo un momento
di giudizio sulla forza dei diversi schieramenti politici.
Ma,
invece, si tratta di un vasto tentativo di modificazione della nostra
Costituzione, che va valutato per il suo effettivo contenuto e per la
qualità delle nuove disposizioni che si propongono.
Come più volte
ho tentato di spiegare, di per sé le revisioni costituzionali che si
stanno tentando non solo sono lecite, ma vari degli istituti che si
vogliono modificare sono stati individuati da molto tempo come tali da
necessitare adeguamenti e revisioni: basti pensare al nostro attuale
inutile bicameralismo o alla necessità di riportare un po’ di chiarezza e
di efficienza nel rapporto fra Stato e Regioni. Ma ovviamente non basta
qualsiasi tipo di modificazione per essere soddisfatti, perché le
revisioni costituzionali possono anche, se gravemente sbagliate, confuse
o disorganiche, addirittura peggiorare il funzionamento delle
istituzioni: dovrebbe essere istruttiva l’esperienza fatta con la grande
riforma costituzionale del 2001 relativa ai rapporti fra Stato e
Regioni, che –malgrado tante buone intenzioni- viene ora individuata
(forse anche con qualche esagerazione) come causa non secondaria della
crisi attuale della nostra amministrazione pubblica.
Ma allora
occorre assolutamente evitare di fare in modo simile e forse anche
peggiore, dal momento che ora il legislatore vorrebbe rivedere la
Costituzione in molteplici settori (una quarantina di articoli
verrebbero modificati in tutto o in parte).
E, invece, purtroppo
il testo emerso da progettazioni alquanto improvvisate e da compromessi e
mediazioni mediocri in Parlamento, lascia sinceramente assai delusi: un
nuovo Senato dalla composizione e natura assai incerte, dotato di
modesti e disorganici poteri legislativi e di controllo; un organo
soprattutto che sembrerebbe dover portare in Parlamento il punto di
vista degli amministratori regionali ma che in realtà è privato di ogni
significativo potere nella definizione dei confini intercorrenti fra
responsabilità statali e regionali.
Tutto ciò all’interno di una
riforma che riduce drasticamente i poteri delle Regioni ordinarie
aumentando moltissimo in parallelo i poteri della Camera dei deputati,
del governo e della sempre più forte burocrazia statale. Ma tutto ciò,
per di più, senza quella chiarezza di confini e limiti fra Stato e
Regioni che sola potrebbe ridurre davvero l’attuale assurda
conflittualità. E tutto ciò mentre, invece, escono pienamente
confermati, se non accresciuti, i poteri legislativi e finanziari delle
cinque Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia
Giulia, Trentino – Alto Adige, Valle d’Aosta) e delle due Province
autonome di Trento e di Bolzano.
Il riferimento anche alla
dimensione finanziaria dell’autonomia di questi ultimi enti territoriali
potrebbe anche ridimensionare la diffusa affermazione che con questa
riforma si riduce la spesa in conseguenza della riduzione del numero dei
senatori, quasi che la spesa pubblica dipenda essenzialmente dal numero
dei parlamentari.
Forse, in previsione del referendum
costituzionale, occorrerà sforzarsi tutti quanti a considerare davvero
il contenuto effettivo delle disposizioni adottate dal Parlamento,
rifuggendo da troppo facili semplificazioni o demagogie.