La Stampa 12.4.16
Via al conto alla rovescia per il premier
di Federico Geremicca
Decenni
di dibattiti e confronti, tanto che ormai nessuno ci credeva più. Poi
la svolta, trenta mesi di lavoro serrato, sei votazioni tra Camera e
Senato, ottanta milioni e passa di emendamenti e la conclusione eccola
qui, che a ora di cena entra via tv nelle case degli italiani: l’aula di
Montecitorio semideserta e fuori, nella piazza, proteste modeste e di
maniera, niente cori, caroselli e «girotondi» in difesa della
Costituzione.
Dunque sarà anche una giornata storica, come
annotato dal presidente del Consiglio, quella nella quale la riforma del
bicameralismo perfetto muove - finalmente - il suo ultimo passo: ma è
una storia crepuscolare, avvelenata e per molti versi incomprensibile.
Una giornata senza solennità, più avvilente che nervosa, con i banchi
della Camera abbandonati da tutte le opposizioni.
Quasi fosse il giorno in cui va in scena un golpe e non il varo di un testo passato al voto parlamentare per ben sei volte.
La
fine del bicameralismo perfetto - assieme all’Italicum «madre di tutte
le riforme» targate Renzi - vede dunque la sua luce così: e nemmeno
questo passaggio storico - vanamente inseguito o promesso da tutti i
premier al governo nell’ultimo quarto di secolo - riesce a restituire
alla cittadella politica quel senso di sé che pare pericolosamente
smarrito. Si pensa ad altro, al voto amministrativo, al referendum
trivelle, a cercare consenso politico ed elettorale in qualunque modo.
E
così, Lega, Cinque Stelle, Forza Italia e sinistra abbandonano l’aula
prima che Renzi cominci a parlare, in un clima irrimediabilmente
avvelenato. Come fosse una cosa normale, Salvini e Grillo passano la
mattinata ad insultare il presidente della Repubblica, dandogli del
codardo o del venduto; per il caso «Tempa Rossa» i Cinque Stelle
continuano a chiedere le dimissioni dell’intero governo, che non ha - al
momento - neppure un ministro indagato. Si urla contro gli immigrati e
si sbandierano gli scandali dell’uno o degli altri, in un drammatico
tutti contro tutti. La fine del bicameralismo perfetto è celebrata così:
in una sorta di inconfessabile disinteresse generalizzato.
Come
sia questa riforma, che vantaggi proponga e quali incertezze e rischi
apra, è cosa ormai nota. Matteo Renzi, intervenendo per l’ultima volta
ieri alla Camera dei deputati, più che spiegarla ha tentato di
rispondere, una per una, alle tante obiezioni diffuse. Ha citato
Dossetti, La Pira e Terracini per dare spessore al suo intervento e
annotare che dubbi e perplessità erano diffusi anche tra i padri
costituenti. Ha cercato, insomma, di dare lui solennità ad un passaggio
importante in sé e decisivo per il suo futuro. Il tentativo, bisogna
dire, non è granché riuscito: se si trattasse di calcio, diremmo per
impraticabilità del campo.
Due cose, però, sono ormai certe. La
prima è che il Senato, così come finora conosciuto, ha i mesi contati:
basta con le doppie letture, le leggi avanti e indietro, i voti di
fiducia al governo ora qui, ora lì. I vantaggi, sul piano
dell’operatività, dovrebbero essere evidenti: altrimenti non si
spiegherebbe perché leader come Craxi e Berlusconi (ma anche Prodi e
altri) hanno tentato per anni di aggirare le lentezze parlamentari
mettendo mano ai regolamenti o affidandosi alla discutibilissima prassi
dei voti di fiducia.
La seconda cosa certa è che il tic-tac, per
Matteo Renzi, è cominciato: un lungo conto alla rovescia verso quel
referendum confermativo («Ad ottobre sarebbe fantastico») al quale il
premier ha legato la propria sorte. In fondo, il famoso «se perdo vado
via» somiglia al più recente «quell’emendamento l’ho voluto io» (Tempa
Rossa): un modo per personalizzare lo scontro politico (o giudiziario)
nella convinzione di esser tutt’ora circondato da un’aurea di assoluta
invincibilità
Rischioso. Perché il tempo passa, le cose cambiano e
non è quasi mai vero che il potere logora chi non ce l’ha. Anche il
potere logora: soprattutto se accentrato e gestito in maniera spiccia,
diciamo alla fiorentina. È per questo, forse, che il discorso di Renzi
ieri alla Camera ha avuto tratti «tradizionali» e perfino pedanti.
Niente a che vedere con l’aria sbarazzina e le mani in tasca con le
quali avviò due anni fa la sua avventura proprio nel moribondo Senato.