La Stampa 12.4.16
La sfida finale di Renzi. Giocarsi tutto sulla riforma
Poi attacca le opposizioni: “Scappare è indice di povertà di contenuti”
di Carlo Bertini
«Potevo
alzarmi, salutare la presidente e dire solo “Ma de che?”», scherza
Matteo Renzi in Transatlantico alla fine del suo intervento in aula. È
carico il premier, convinto di aver smontato uno ad uno prima di partire
per l’Iran, tutti i punti contestati alla riforma Costituzionale del
governo. Che va al voto definitivo, traguardo di un percorso durato due
anni, questa settimana, per poi planare verso la madre di tutte le
battaglie, il referendum di autunno. Scoglio che Renzi conta di poter
superare. È importante solo vincere o anche la percentuale di affluenza?
«Basta vincere, mi gioco tutto. Per cui...», esclama alla buvette
quando ricorda non a caso che «il centrosinistra vinse nel 2001 con il
34% di affluenza. Ma non importa la percentuale, basta vincere». Parole
che se sommate a quelle rivolte in aula a quelli che hanno scelto
l’Aventino e contestano la riforma della Carta, «scappare è indice di
povertà di contenuti», fanno storcere la bocca ai dissidenti come Gianni
Cuperlo. Che avrebbe voluto ascoltare, dice sconsolato, un maggiore
coinvolgimento delle opposizioni invece bistrattate.
Saluta Cuperlo e Speranza
«Ho
fatto un discorso istituzionale», spiega Renzi mentre con le mani mima
l’aplomb che ha volutamente mantenuto in un aula semideserta, con gli
anti-Renzi che invece di restare ad ascoltarlo si alzano e se ne vanno,
prima la sinistra, poi gli azzurri di Brunetta, quindi i grillini e
leghisti. E quando dice «ho voluto lasciare agli atti la risposta a
tutte le critiche punto per punto» si capisce che il premier ha voluto
parlare più all’esterno che al circuito politico, come se già desse
fuoco alle polveri della campagna, dove «per forza verrà fatta anche
demagogia».
Il premier scherza con i cronisti alla buvette e va a
salutare la coppia Cuperlo-Speranza in segno di distensione, mentre in
aula l’ex piddì D’Attorre chiede di vergognarsi anche per «la qualità
dell’italiano della riforma segno di deformazione della Costituzione» e
spera nel quorum del referendum sulle trivelle come «segno di una
battaglia di democrazia che parta nel Paese». Insomma ammette l’auspicio
che domenica ci sia la prova generale della spallata d’autunno. Sui
banchi del governo, a riprova della solennità del momento, manca la
Boschi, a Londra per un convegno, Alfano e Gentiloni, ma gli altri ci
sono tutti, da Orlando alla Pinotti, da Poletti alla Madia. Sugli
scranni siede pure Luca Lotti, mentre per Delrio, fuori dall’emiciclo,
il premier spende parole di lode, «una barzelletta la richiesta di
dimissioni di chi non ha un decimo della moralità di Graziano».
Il veto delle opposizioni
E
se uno dei refrain è che le istituzioni finiscono nelle mani di una
sola forza politica, il partito che vince e da solo decide tutto, Renzi
lo smonta citando il potere delle opposizioni che possono bloccare la
nomina del Capo dello Stato per cui serve ormai un quorum dei tre
quinti, «una soglia discutibile ma un elemento di garanzia». Così come
cita il caso di Umberto Terracini che mise ai voti la possibilità di
iniziativa costituzionale da parte di un governo, per rispondere alla
sinistra che con Scotto gli rinfacciava la tesi di Calamandrei per cui
quando si parla di riforme costituzionali «i banchi del governo dovrebbe
essere vuoti». Ma sono ben 25 i punti che Renzi vuole rintuzzare in
questa «giornata storica» dedicata a Napolitano, in cui la «classe
politica riforma se stessa e dà una lezione di dignità al resto della
classe dirigente del Paese». Li elenca tutti, ricorda che non si tocca
il sistema di pesi e contrappesi, che non si toccano i poteri del
premier a differenza delle riforme di D’Alema e Berlusconi; che si son
fatte più sedute della Costituente; che si va verso un «modello di
democrazia decidente con una sola fiducia e il premio di maggioranza al
partito che vince».