Il Sole 12.4.16
Un primo passo nel merito
di Lina Palmerini
Ha
colpito, dell’Aula di ieri, l’assenza delle opposizioni e la frase a
effetto «sul referendum mi gioco tutto». Ma seguendo tutto l’intervento
di Renzi, si è visto il tentativo di fare un primo passo nel merito
della riforma e un passo indietro sulla personalizzazione della sfida.
Difficile
dire se quello di ieri a Montecitorio sia l’inizio di un cambio di
strategia del premier o semplicemente un atto dovuto a un’Aula
parlamentare. Sta di fatto che i pilastri su cui si reggeva il discorso
del presidente del Consiglio sono stati essenzialmente due: l’omaggio al
Parlamento e ai parlamentari che hanno approvato una riforma
costituzionale; un passo avanti nel merito della legge smontando in 19
punti tutte le obiezioni delle opposizioni. In sostanza, si è visto meno
Renzi e più la riforma che sarà sottoposta al giudizio degli italiani.
Un passo indietro nella personalizzazione? E quanto durerà? I dubbi
restano ma ieri in quasi un’ora di intervento il premier non ha parlato
di se stesso e dei gufi, non della santa alleanza contro di lui, ma di
come è nata e a cosa porta la riforma costituzionale.
È stata una
delle rare volte in cui ha usato la parola «gratitudine» verso il
Parlamento, in cui ha coinvolto un’intera classe politica – non solo i
suoi fedelissimi – condividendo i meriti dei cambiamenti scritti dalla
legge. La fine del bicameralismo paritario, la revisione del Senato e
dei poteri delle Regioni, il rapporto di fiducia con il Governo, il peso
delle opposizioni. Ha smontato le obiezioni di chi parla della
Costituzione più bella del mondo citando i padri costituenti che già
dopo tre anni parlavano dei difetti della Carta, ha ricordato Dossetti e
la «crisi di sistema» che fu oggetto di un convegno di giuristi
cattolici nel ’51. Insomma, più storia e meno slogan. Sulla scena ieri
non c’era il rottamatore di un passato ma un passato che ha spinto un
progetto di riforma fino al punto di svolta, nel 2013.
«Tutto è
nato in quest’Aula quando l’allora capo dello Stato sfidò la politica a
riformarsi», ha detto Renzi ringraziando Giorgio Napolitano applaudito
dall’Aula. Dunque, ha ripreso i fili di questa storia: un sistema
istituzionale che era andato in cortocircuito, partiti che non erano
stati capaci di eleggere un nuovo capo dello Stato ed erano andati da
Napolitano pregandolo di farsi rieleggere, il suo sì a condizione che la
legislatura fosse centrata sulle riforme e il suo approdo al Governo,
con quella stessa missione.
Forse il tentativo di ieri di
de-personalizzare sarà spazzato via dalla polemica della campagna
referendaria e, del resto, l’ha ammesso lo stesso Renzi pronosticando
demagogia e populismo a ridosso del voto su cui si giocherà tutto. Ma
quella scommessa, almeno ieri, non era declinata «con me o contro di me»
ma «con la riforma o contro la riforma». Reggerà? Questi giorni di
polemiche e di inchieste a ridosso del referendum sulle trivelle
dimostrano che tanto meno si vede il merito delle questioni, tanto più
prevale la demagogia. E tanto più Renzi personalizza gli scontri, più
rischia. Perché se la battaglia referendaria sarà su se stesso allora
non conterà il nuovo Senato o la fine del bicameralismo ma o le ultime
intercettazioni, o una nuova inchiesta, o gli ultimi dati sul Pil, o gli
sbarchi, o forse tutte queste cose insieme.
Ieri ha di nuovo
messo sul tavolo le sue dimissioni se il referendum non passerà: giusto,
visto che è il cuore del suo Governo. Ma la nota nuova e interessante è
stata che ha chiamato in causa tutta una classe politica sulla riforma
quella che, ha detto lui stesso, «si è sentita sfidata e ha dato il
meglio di sé». Un passaggio meno populista di altri già sentiti, perché
non presenta se stesso davanti al giudizio dei cittadini ma uno sforzo
parlamentare collettivo. Il dubbio che, alla fine, sarà una sfida
personale resta. Ma i rischi di una battaglia solitaria, oggi, sono più
chiari e visibili.