La Stampa 11.4.16
Le Procure e la guerra dei vent’anni
di Marcello Sorgi
Tra
caso Regeni e crisi diplomatica con l’Egitto, riforme istituzionali al
passaggio finale alla Camera, trattative con Bruxelles sul Def
(documento di programmazione economica) e referendum sulle trivelle
domenica prossima, si apre oggi per Renzi una settimana molto dura, dopo
quelle in cui il governo s’è trovato tutto insieme alle prese con il
caso Guidi e l’inchiesta sul piano petrolifero della Basilicata.
Una
singolare coincidenza ha voluto che l’elezione del nuovo vertice
dell’Anm, sindacato dei magistrati, coincidesse con lo scontro più aspro
tra Renzi e le toghe.
Per aver criticato il modo di agire dei pm di
Potenza, la somministrazione a rate di verbali di intercettazioni
riguardanti, prima una ministra, poi un’altra e un altro ancora, per
aver chiesto che il lavoro delle indagini si svolga con le necessarie
cautele, senza mettere in discussione programmi e obiettivi del governo,
Renzi è stato accusato di aver attaccato la magistratura né più né meno
come faceva Berlusconi. E il nuovo presidente dell’Anm Pier Camillo
Davigo, nome-simbolo, già componente dello storico pool di Mani Pulite,
appena eletto, ha messo le mani avanti rispetto all’eventualità che
l’esecutivo voglia ridare impulso alla riforma delle intercettazioni,
attualmente bloccata al Senato.
Quella tra politica e magistratura,
si sa, è una guerra che si trascina da più di un ventennio: da quando,
appunto, fu svelata, proprio dal gruppo di magistrati di Milano, guidati
dal procuratore Saverio Borrelli, di cui facevano parte Antonio Di
Pietro, Gherardo Colombo e lo stesso Davigo, la rete di corruzione
avviluppatasi attorno alla Prima Repubblica, e che ne determinò la
caduta. A oggi, un giudizio storico condiviso su quell’esperienza non è
stato raggiunto: perché se fu giusto perseguire le trame affaristiche
che arrivavano ai vertici dei partiti e dello Stato, i metodi con cui
l’obiettivo fu raggiunto e gli scivolamenti, in alcuni casi, nel fare di
tutta l’erba un fascio, in seguito hanno dato luogo a numerose critiche
e a frequenti interrogativi rimasti aperti. Inoltre la corruzione, in
Italia, non s’è certo fermata, ed anzi in un certo senso è peggiorata,
talvolta perfino a discapito della politica. Una riforma complessiva
della giustizia è stata tentata e mai realizzata lungo questi oltre
vent’anni, in tutte le legislature dal ’94 a oggi. La resistenza dei
giudici fuori e dentro il Parlamento, quella di politici che a destra e a
sinistra hanno trovato conveniente fiancheggiare il giustizialismo, e,
da ultima, l’ondata populista che mira a dimostrare la pretesa che la
politica sia di per sé corrotta, ne hanno impedito fin qui un serio e
sereno esame. In quest’ambito, è evidente, assimilare Renzi a Berlusconi
serve a chiudere ogni discorso in materia prima ancora che possa essere
riaperto. Sebbene sia fuor di dubbio che esista una differenza tra i
due.
Berlusconi infatti protestava contro i giudici che lo
perseguivano per le sue attività di imprenditore, precedenti alla sua
discesa in politica. Lo faceva, spesso, esagerando e forzando la mano,
come quando faceva approvare in Parlamento le cosiddette «leggi ad
personam», scritte dai suoi avvocati per bloccare i processi a suo
carico. Ma talvolta, occorre riconoscerlo, aveva ragione, considerando
le non poche volte in cui le accuse contro di lui sono cadute.
Renzi
invece ha sollevato un’altra questione, che non lo riguarda direttamente
e concerne più in generale il rapporto tra politica e giustizia. Per
inciso, sulle questioni personali o familiari, sue o di suoi ministri,
chiede che si faccia presto a emettere i giudizi, e chi ha sbagliato
paghi. Per il resto, vuol sapere dai magistrati se siano in grado di
garantire che la giustizia faccia il suo corso, senza bloccare o
paralizzare l’azione del governo: come sta succedendo in Basilicata e
come ha rischiato di accadere in molte altre circostanze in cui le opere
pubbliche hanno dato spunto a inchieste anti-corruzione, cominciate con
arresti e diffusione di intercettazioni, e sfociate in interruzioni dei
lavori, quando non alla rinuncia ai progetti.
Va detto - e Renzi sa
di doverne tener conto - che gli esempi del Mose di Venezia o degli
inizi dell’Expo di Milano, per citare due esempi recenti, hanno dato
ragione alle procure e hanno visto cadere anche teste importanti, senza
distinzione, destra o sinistra, di provenienza politica. Ma l’equazione
«appalti uguale corruzione» porterebbe il Paese a una sorta di paralisi
che non può più permettersi: su questo, Renzi vorrebbe un segnale dalle
Procure. E al di là di qualche passaggio sgradevole che il premier s’è
lasciato scappare, la sua posizione verso la magistratura, al contrario
di quella dell’ex Cavaliere, ha l’ambizione di essere dialogante. Non
avrebbe creato un Autorità nazionale anticorruzione, affidandola a un ex
magistrato come Cantone, se non fosse consapevole che la corruzione in
Italia ha raggiunto il livello di guardia. Non avrebbe nominato
Guardasigilli un ministro cauto come Orlando, se non fosse convinto che
la riforma della giustizia dev’essere realizzata anche a prezzo di
compromessi con i giudici.
Quel che serve capire, adesso, è se la
magistratura ha le stesse intenzioni, o ancora una volta sceglierà di
resistere alla volontà riformatrice del governo, chiudendosi al
confronto e alzando il fuoco di fila delle inchieste e delle
intercettazioni. La scelta di un magistrato prestigioso come Davigo
farebbe propendere per la prima ipotesi. Le sue prime dichiarazioni,
minimaliste e contrarie a seri cambiamenti in materia di intercettazioni
(che peraltro Renzi non vuole, puntando solo a un’autoregolamentazione
dei pm), qualche dubbio lo lasciano. Ma sono soprattutto le modalità
della sua elezione alla guida dell’Anm a spingere verso il pessimismo.
Quale sindacato in Italia eleggerebbe un leader carismatico per un solo
anno, facendogli in pratica firmare la lettera di dimissioni prima di
insediarsi? Cosa potrà fare l’ottimo Davigo nei dodici mesi in cui potrà
appena prendere confidenza con il suo nuovo ruolo? Come potrà
accettare, sempre Davigo, eletto a furor di toghe sull’onda della
rivolta contro le correnti della magistratura, di esser governato e
giubilato in così poco tempo da quelle stesse correnti? Sono queste
domande, a cui è difficile trovar risposta, a far temere che la lunga
guerra tra politica e giustizia non sia affatto finita. E difficilmente
possa trovar pace nel confronto, tutto da costruire, tra Renzi e Il
nuovo presidente dell’Anm.