La Stampa 11.4.16
Egitto, fermezza ma senza escalation
di Stefano Stefanini
La
svolta c’è stata. Non quella, auspicata, della piena collaborazione
egiziana. Non riguarda la tragica fine di Giulio Regeni. La svolta è nei
rapporti fra Italia ed Egitto.
Col temporaneo richiamo a Roma
dell’ambasciatore Maurizio Massari «per consultazioni» si apre fra i due
Paesi un confronto politico-diplomatico dal seguito e dalla portata
imponderabili. Sarà determinante la gestione da parte di Roma e del
Cairo. Per entrambi è il momento di riflettere sulle prossime mosse e
sulle conseguenze, che vanno oltre il disaccordo su indagini e
responsabilità.
Non è affatto escluso che la decisione italiana non
si riveli la chiave per sbloccare le resistenze egiziane. Se invece il
Cairo s’irrigidirà, sarà muro contro muro. La questione non è se essere
ottimisti o pessimisti, ma di come condurre politicamente questa nuova
pagina bilaterale fra Egitto e Italia.
Cominciamo dall’Italia. Se le
risposte egiziane ai nostri inquirenti non sono state soddisfacenti,
specificamente sulle «celle» telefoniche e sulla banda di criminali
uccisi dalla polizia, al nostro governo non rimaneva che prendere atto
che la collaborazione necessaria non c’è e dire al Cairo «adesso basta».
Questo il senso del richiamo dell’ambasciatore. Tutto fa pensare che il
messaggio sia giunto a destinazione. Adesso è il momento di lasciarlo
sedimentare.
Altre misure punitive di cui si parla sono premature.
Dichiarare l’Egitto Paese poco sicuro, più di due mesi dopo l’evento,
sarebbe pura rappresaglia. E inutile. Nessuno lo sa meglio della
neo-nominata segretario generale della Farnesina, Elisabetta Belloni,
che fu a lungo (fra tante altre prestigiose cose) eccellente capo
dell’Unità di Crisi. Perché adesso e non due mesi fa? Quanti italiani
oggi stanno pensando di andare in vacanza o per studio in Egitto? La
palla è nel campo egiziano. Lasciamogliela.
Due mesi di
collaborazione egiziana a mezzo servizio e di mezze verità non fanno ben
sperare. Ma è anche vero che al Cairo c’è chi si rende conto - e se ne
avverte qualche eco nella stampa egiziana non ufficiale - che
perseverare su questa linea è contro l’interesse nazionale, strategico,
economico e d’immagine. La situazione economico-finanziaria è pressoché
disastrosa. L’Egitto è un grande malato degli incontri primaverili delle
Ifi (Fondo Monetario e Banca Mondiale) a Washington la settimana
entrante. Il Cairo vi sarà rappresentato dal nuovo ministro delle
Finanze, Amr-el-Gahry, riformista. Il nadir nel campo dei diritti umani
comporta un rischio d’isolamento internazionale di cui il governo di
Al-Sisi sottovaluta la gravità. La solidarietà per la morte di Giulio
Regeni non è solo italiana; tocca corde potenti a Bruxelles, a
Washington, alle Nazioni Unite.
L’iniziale reazione ufficiale del
Cairo è stata, ed è, di far leva sull’orgoglio nazionale e di rigettare
come offensive le richieste italiane. La levata di scudi s’inserisce
nelle lotte di potere in corso fra servizi di sicurezza. Al Sisi ne è
arbitro ma anche ostaggio. L’anima repressiva del regime imbavaglia i
riformisti. Fin qui. Le ricadute, interne e internazionali, delle
torture e dell’assassinio di Regeni possono riaprire i giochi. L’Italia
non è sola. Il governo egiziano - se ascolta - sa di dover «fare
qualcosa» per aiutarsi.
Specie se farà presa il messaggio
nazionalista, il Cairo può scegliere di continuare ad arroccarsi. Può
sperare - sbagliando - che il riformismo economico della nuova squadra
finanziaria faccia dimenticare i diritti umani. Oppure può rendersi
conto che si sta cacciando in un vicolo cieco e trarne le conseguenze.
Sul
versante italiano, non siamo più alla controversia sulle indagini. Non
rinunciamo assolutamente alle risposte che abbiamo chiesto, ma ora siamo
al rapporto con l’Egitto. Questa è una responsabilità
politico-diplomatica del governo. Né investigativa, né giuridica, né
emotiva. Dopo il messaggio politico del richiamo di Massari, va evitato
un crescendo di retorica e/o di misure che alimentino al Cairo la
reazione pavloviana dell’orgoglio nazionale. Non portiamo acqua a quel
mulino. Il presidente del Consiglio ha detto che questo non sarà un
altro caso marò. Occorre allora che l’affronti anche con pazienza e
strategia; se occorre ignorando i sondaggi interni. Fermezza sì,
escalation no.