l manifesto 21.4.16
Un buon viatico contro il jobs act
Contratti, pensioni e l'occupazione che non c’è
di Alfonso Gianni
Malgrado
il cono d’ombra della vigilia, ieri mattina sono tornati in scena i
metalmeccanici. Hanno manifestato unitariamente con cortei e presidi un
po’ ovunque in tutta Italia. Spesso con una presenza significativa di
lavoratori precari.
Dopo otto anni di separazione Fim, Fiom, Uilm,
hanno proclamato assieme uno sciopero di quattro ore – andato bene, ma
c’è la solita guerra dei numeri – per il rinnovo di un contratto che
riguarda un milione e seicentomila lavoratori. Per smuovere una vertenza
di fronte alla quale la Federmeccanica si è presentata fin dall’inizio
con una propria contropiattaforma che mira ad esaltare il contratto
aziendale e a deprimere, quando non cancellare, quello nazionale. E che
conta sullo spalleggiamento da parte di un governo, che cita i
lavoratori solo quando fa comodo, come nelle dichiarazioni di Renzi
post-referendum di domenica scorsa, salvo destrutturare il diritto del
lavoro e i diritti nel lavoro.
La prova unitaria di oggi avrà il
suo peso nell’atteggiamento padronale? E’ possibile, non solo
auspicabile. Soprattutto perché i risultati ottenuti dalla Fiom nei mesi
scorsi, nelle elezioni interne ai luoghi di lavoro, hanno dimostrato
sia al padronato che a una parte della dirigenza sindacale nostalgica
delle politiche concertative, che la strategia della divisione non paga e
che contratti firmati da chi, alla prova dei fatti, è meno
rappresentativo di quanto non si sperasse, sono più favorevoli sulla
carta ma ingestibili nella pratica.
Il contratto nazionale torna a
svolgere, all’atto stesso della rivendicazione del suo rinnovo, una
funzione unificante all’interno del mondo del lavoro. Un buon viatico
anche per la campagna referendaria contro il jobs act. E una funzione di
stimolo ad una economia che non può risollevarsi a colpi di liquidità
iniettata – e lì finita – nel sistema bancario, se non riparte una
domanda sostenuta da un minimo di capacità di spesa.
Il pensiero
mainstream fa acqua da tutte le parti. Al punto che a livello europeo si
è affacciata la teoria dell’helicopter money, ovvero della
distribuzione di denaro direttamente ai cittadini, che solo poco tempo
fa sarebbe stata considerata una folle eresia. Fa bene la sinistra ad
approfittare di queste crepe, per lanciare la sua proposta di un
Quantitative Easing for the people.
Ma tutto ciò ha un senso e una
possibilità pratica solo se riparte la lotta per la ridistribuzione
della ricchezza là dove essa si forma, cioè nei luoghi di lavoro e di
produzione. E’ lì, dopo decenni di spostamento dei redditi dal lavoro ai
profitti, che deve ripartire una migliore e più equa distribuzione.
Dopo è troppo tardi.
Solo così, con maggiore occupazione e
retribuzione, si può difendere il futuro di questa generazione, che non
vorremmo rassegnarci a vedere perduta. Per questo motivo appare stonata
la polemica che si è aperta fra il presidente dell’Inps Tito Boeri e
Susanna Camusso. La leader della Cgil lo accusa di fornire un quadro
talmente deprimente da finire per scoraggiare tutti, i giovani in
primis. Ma la realtà è quella che è.
Quando Boeri dice che la
generazione degli anni ’80 rischia di essere costretta a lavorare fino a
75 anni e ricevere un assegno inferiore di un quarto, non racconta
fole. E’ semplicemente l’effetto delle norme introdotte a suo tempo
dalla legge Fornero-Monti, per cui chi va in pensione con il sistema
contributivo – avendo iniziato a lavorare dopo il 1996 – può ritirarsi
dal lavoro solo se rispetta un certo limite di reddito. Più questo è
basso, più discontinuo e precario è il lavoro, più tardi avrà la
possibilità di lasciarlo. La giustificazione fu quella di evitare
pensioni misere. Pura ipocrisia, che adesso esplode, venendo il tempo in
cui c’è chi ha la prospettiva di andare in pensione con il solo
contributivo.
In realtà è proprio quest’ultimo che andrebbe messo
sotto accusa. Sono i meccanismi perversi che esso ha instaurato a
minacciare nel profondo il diritto a un’equa pensione e a spezzare la
solidarietà generazionale, funzionale al mantra dei vecchi che rubano il
futuro ai giovani tanto caro ai governi di centrodestra come di
centrosinistra in tutti questi anni. E questo ovviamente Boeri non lo
fa. Ma allora è sul versante della mancata coerenza che andrebbe
criticato. Non certo per eccesso di allarmismo.
Per quanto si
possa comprendere che avendo le organizzazioni sindacali aperto una
certa conflittualità, anche se per ora a troppo bassa intensità, sul
tema delle pensioni – possano lecitamente temere che il governo si
avvantaggi della presenza in campo di ulteriori posizioni e soggetti per
sviare il confronto, la mossa più saggia è sempre quella di fare
proprie le denunce altrui, purché fondate. Tanto più se, al fondo, ti
danno ragione.