il manifesto 21.4.16
I metalmeccanici in piazza per una paga più giusta
Sono
1,6 milioni e cercano il riscatto dopo che la crisi li ha decimati: «Il
50% del Pil lo facciamo noi, ma adesso tocca ai nostri salari». Secondi
alla Germania, anche per gli stipendi
di Antonio Sciotto
La
battaglia sta tutta lì: nell’aumento del salario. Lo otterranno, a
livello nazionale, da Roma, i tre sindacati Fim, Fiom e Uilm, o lo potrà
dare in futuro solo il singolo imprenditore, in azienda, a patto però
che i lavoratori firmino un accordo in loco e riescano a «produrre
ricchezza», come dice il presidente di Federmeccanica Fabio Storchi? In
questo braccio di ferro sta la partita che ieri ha visto le tute blu
schierare le proprie forze in piazza, mentre dall’altro lato
Confindustria – con il governo che offre una sponda detassando il
salario e il welfare erogati a livello aziendale – cerca di portare a
casa la «rivoluzione 4.0», che oltre che industriale sarà anche (forse)
contrattuale.
In tutto questo, in mezzo, ci stanno loro, gli 1,6
milioni di dipendenti metalmeccanici italiani, tute blu e impiegati: una
categoria che rappresenta uno dei fiori all’occhiello della produzione
manifatturiera del nostro Paese – ci confermiamo al secondo posto
nell’Unione europea dopo la Germania – ma che è stata fortemente provata
dalla crisi.
Riprendersi dopo la bufera
Secondo i dati di
Federmeccanica/Eurostat (giugno 2015) i metalmeccanici italiani sono
1.631.817. Ma erano molti di più, circa due milioni, prima dell’inizio
della crisi: in otto anni si sono persi oltre 300 mila posti di lavoro,
ha calcolato la Fiom. Intensissimo, di pari passo, il ricorso alla cassa
integrazione: quella ordinaria ha avuto il suo picco nel 2009, quella
straordinaria nel 2010, ma è tornata a salire esponenzialmente nel 2014,
a dimostrazione che – come diceva Maurizio Landini parlando ieri dal
palco di Milano – «la crisi per noi (per le tute blu, ndr) non è ancora
finita». Scorrendo i tavoli aperti al ministero dello Sviluppo troviamo
infatti molte imprese del comparto – dalla OmCarelli alla Solsonica,
dalla Piaggio Aerospace alla Belleli. E dire – per continuare a citare
Landini – che il settore «rappresenta quasi il 50% del Pil: quindi –
conclude il sindacalista – adesso Federmeccanica ci deve riconoscere
l’aumento del potere di acquisto».
Il settore metalmeccanico,
spiega Federmeccanica, è molto forte nell’export: esporta beni per 191
miliardi che rappresentano quasi la metà del fatturato settoriale.
L’attivo del suo interscambio (65 miliardi di euro) contribuisce al
totale riequilibrio della bilancia commerciale italiana, strutturalmente
deficitaria nei settori energetico e agro-alimentare. Il 40% degli
addetti lavora nella metallurgia e nella produzione di prodotti in
metallo, il 25% nelle macchine e apparecchi meccanici, il 17% nei mezzi
di trasporto, l’11% produce macchine e apparecchi elettrici, e infine il
7% nei computer e prodotti di elettronica e ottica.
Quanto
guadagna un metalmeccanico? Qui arrivano le note dolenti, e forse
comprendiamo ancora di più la battaglia dei contratti, guardando ai
numeri: un operaio di terzo livello guadagna 1700 euro lordi al mese
(che salgono a 1850 incluse integrazioni e premi); al netto, dove si
gioca il potere di acquisto, si riducono a circa 1200. Circa 1400/1500
netti per un quinto livello, ma se scendiamo agli apprendisti e ai
livelli più bassi si arriva a circa 1000 euro netti. Per gli impiegati
andiamo dai 1000 netti fino ai 2500-3500 medi per un impiegato e quadro
più elevato.
Colleghi tedeschi ben più ricchi
In Germania,
dove i metalmeccanici sono oltre il doppio (3,6 milioni), il trattamento
economico riservato ai lavoratori è molto migliore: in Italia, spiega
la Fiom, per ogni ora lavorata vengono corrisposti circa 18 euro di
retribuzione lorda più 7 oneri sociali; in Germania rispettivamente 31
euro e 6 euro all’ora. Il costo del lavoro per dipendente italiano
viaggia attorno ai 40 mila euro, ed è in linea con quelli di Spagna e
Regno unito, mentre è di circa 15-20 mila euro inferiore rispetto a
quello che troviamo in Francia, Germania, Danimarca e Olanda.
La
presenza di lavoro immigrato non è altissima: siamo a circa il 4% sul
totale degli addetti, ma in 15 anni la crescita è stata molto forte
perché la percentuale nel 1990 era dello 0,25%.
Il precariato e il
lavoro sommerso, per la tipologia specifica del settore – svolto
perlopiù in ben definiti siti industriali, con una tradizione
contrattuale molto antica e consolidata – non incide ai livelli di altri
comparti più giovani o a più alto tasso di irregolarità, come il
commercio o la raccolta nei campi: il tempo indeterminato risulta al 96%
contro un 4% di tempi determinati e apprendisti. Ma dilagano gli
appalti (dove sotto l’apparenza di lavoro regolare e stabile si può
annidare l’abuso), e ultimamente si diffondono anche le partite Iva e il
lavoro accessorio.
È iscritto al sindacato un lavoratore su 3
(33%), dato che è sceso parecchio rispetto a 20 anni fa: nel 1995
avevano una tessera 4 lavoratori su 10 (39%).