Il Sole Domenica 3.4.16
Le sfide del nostro tempo
La sostenibilità cristiana
di Gianfranco Ravasi s.j.
La
Bibbia ci insegna che siamo fatti di terra e che la terra è stata data
all’uomo perché la coltivasse e la custodisse. Le encicliche di
Benedetto XVI e Francesco indicano la strada
È un vocabolo che è
divenuto quasi un’insegna dei nostri giorni, fino a trasformarsi
purtroppo in uno stereotipo che riempie le bocche ma lascia indifferenti
le mani e, quindi, l’impegno. Stiamo parlando della cosiddetta
sostenibilità, un termine spesso ripetuto e declinato in varie forme
(indice, codice, bilancio di sostenibilità) e che, però, registra
all’opposto un dato talora drammatico, quello dello sfruttamento
insensato ed egoistico dei beni che Dio ha destinato universalmente
all’umanità e che, invece, vengono o accaparrati solo da alcuni o
sprecati insensatamente (si pensi solo all’acqua!) o feriti attraverso
l’inquinamento e la devastazione ambientale.
Proprio in apertura
alla Bibbia, nelle pagine dedicate alla creazione, ci sono due asserti
fondamentali. Il primo è quello che – a differenza della cultura greca –
riconosce il rilievo che la materialità ha anche per la creatura umana:
«Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue
narici un alito di vita e così divenne un essere vivente» (Genesi 2,7).
Alla fine della sua esistenza l’uomo «ritorna alla polvere della terra e
il soffio vitale ritorna a Dio che lo ha dato» (Qohelet 12,7), «poiché
da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai» (Genesi
3,19). Tra la terra e l’umanità c’è, dunque, una radicale sororità, una
parentela stretta che, però, spesso dimentichiamo e violiamo.
Il
secondo asserto indica un altro aspetto che ci distingue dalla
materialità. Il Creatore, infatti, impone questo impegno all’uomo e alla
donna: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e
soggiogatela, dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su
ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Genesi 1,28). La creatura
umana riceve da Dio una dignità di sovranità delegata sul creato. In
realtà, i due verbi ebraici usati contengono un significato più sfumato e
persino suggestivo: kabash - “soggiogare” originariamente rimanda
all’insediamento in un territorio che dev’essere esplorato e
conquistato, mentre radah - “dominare” è il verbo del pastore che guida
il suo gregge.
Si tratta, certo, di un primato che purtroppo
l’uomo spesso ha esercitato in modo tirannico e non come un compito, che
è specificato da un ulteriore dettato del Creatore così formulato: «Il
Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo
coltivasse e custodisse» (Genesi 2,15). È interessante notare anche in
questo caso che l’attività propria dell’umanità è espressa con due verbi
ebraici – ’abad e shamar – che contengono un duplice significato. Il
primo è quello esplicito dell’operare, trasformare, investigare e
tutelare le potenzialità della natura attraverso l’attività lavorativa e
scientifica. Il secondo aspetto è nel fatto che i due verbi indicano
anche il “servire” cultuale e l’“osservare” la legge divina, due
componenti fondamentali dell’alleanza tra il Signore e Israele.
C’è,
dunque, una sorta di alleanza primaria “naturale” tra il Creatore e
l’umanità che si esprime nella tutela e nella trasformazione del creato.
Un patto che spesso l’uomo infrange, devastando e occupando brutalmente
la terra. È suggestiva una parabola araba che si muove proprio in
questa linea. «All’inizio il mondo era un giardino fiorito. Dio, creando
l’uomo, gli disse: Ogni volta che compirai un’azione cattiva, io farò
cadere sulla terra un granello di sabbia. Gli uomini non ci fecero caso.
Che cosa avrebbero significato cento, mille granelli di sabbia in un
immenso giardino fiorito? Passarono gli anni e i peccati degli uomini
aumentavano; torrenti di sabbia invasero il mondo. Nacquero così i
deserti, che di giorno in giorno diventarono sempre più grandi. E Dio
continua ancor oggi ad ammonire gli uomini dicendo loro: Non riducete il
mio giardino fiorito in un immenso deserto!».
Questa amara
parabola dipinge in modo illuminante la crisi del pianeta. Per fortuna,
un rigurgito di pentimento e rimorso sta emergendo proprio sotto i
termini di ecologia e sostenibilità, temi che sono stati finalmente
messi in agenda non solo dalla Chiesa attraverso l’enciclica Caritas in
veritate di Benedetto XVI e la Laudato si’ di papa Francesco, ma anche
dagli Stati, dagli organismi internazionali e dalle stesse strutture
economiche. A metà degli anni Settanta, attraverso un rapporto
dell’allora Segretario Generale dell’ONU, Dag Hammarskjöld, si iniziò a
sottoporre a critica il modello di sviluppo dominante. Fu, però, solo
nel 1987 che la “Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo” (nota
come “Commissione Brundtland”) definì in modo chiaro e ampio il
concetto e il programma di sviluppo sostenibile, come «processo di
cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione
degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i
cambiamenti istituzionali siano coerenti coi bisogni futuri e non solo
con gli attuali».
In quel testo si introducevano anche elementi
etici e sociali per una «effettiva partecipazione dei cittadini nel
processo decisionale e una maggior democrazia a livello di scelte
internazionali», così che si potessero «soddisfare i bisogni
fondamentali di tutti ed estendere a tutti la possibilità di attuare le
proprie aspirazioni a una vita migliore». In questa linea, nel dicembre
2002, l’assemblea generale dell’ONU proclamò l’arco 2005-2014 come il
“Decennio dell’educazione allo sviluppo sostenibile”. Fondamentale – a
livello socio-culturale generale – è far comprendere che la
sostenibilità è uno dei diritti umani capitali. È noto, infatti, che
ormai si è soliti elencare quattro “generazioni” di diritti.
I
diritti di “prima generazione” sono quelli civili e politici (vita,
dignità personale, libertà). Diritti di “seconda generazione” sono
quelli economici, sociali, culturali descritti nella Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo (1948), come salute, lavoro, istruzione
e così via. Di “terza generazione” sono i diritti di solidarietà
riguardanti soprattutto i soggetti più vulnerabili: pace, equilibrio
ecologico, difesa ambientale e delle risorse nazionali,
autodeterminazione dei popoli. Infine, alla “quarta generazione”
appartengono i nuovi diritti relativi al campo delle manipolazioni
genetiche, della bioetica e delle nuove tecnologie di comunicazione. È,
dunque, importante inquadrare la sostenibilità nell’orizzonte più vasto
della dignità umana, della morale sociale e degli stessi principi
religiosi.
È ciò che è ribadito a più riprese nell’enciclica
Laudato si’ che per almeno una dozzina di volta usa la terminologia
“sostenibile/sostenibilità”. Papa Francesco lo fa partendo dalla Carta
della Terra promulgata a L’Aja il 29 giugno 2000: «Come mai prima d’ora
nella storia, il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio
[…]. Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una
nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la
sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la
pace, e per la gioiosa celebrazione della vita» (n. 207). Per questo «la
sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la
preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno
sviluppo sostenibile e integrale» (n. 13).
Certo, il Papa è
consapevole dei rischi che l’uso scontato e abitudinario del termine
“sostenibilità”, come abbiamo già sottolineato in apertura, e lo stesso
«discorso della crescita sostenibile possa diventare spesso un diversivo
e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso
ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia»
(n. 194). Per questo, è necessario sollecitare «una creatività capace di
far fiorire nuovamente la nobiltà dell’essere umano, perché è più
dignitoso usare l’intelligenza, con audacia e responsabilità, per
trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo, nel quadro di una
concezione più ampia della qualità della vita» (n. 192).
Siamo
partiti con la visione genesiaca della creazione; l’abbiamo riletta
anche attraverso la concezione musulmana e abbiamo introdotto l’impegno
che la Chiesa cattolica propone ai cristiani e anche a tutti gli uomini
di buona volontà. Concludiamo questa considerazione essenziale sul nesso
tra etica, teologia e sostenibilità, con una parabola moderna che è
evocata dal filosofo Martin Heidegger in una delle sue opere più
rilevanti, Essere e tempo (1927). Essa è la ricreazione libera di
elementi mitici greci. Protagonista è una dea dal nome emblematico di
“Cura”, sinonimo del nostro vocabolo “Sostenibilità”.
Attraversando
un fiume, essa raccolse il fango della sponda e plasmò una figura
umana. Giove le infuse lo spirito e la rese una creatura vivente. Cura e
Giove si misero a litigare su chi avesse il diritto di imporre il nome
e, quindi, il diritto di proprietà sulla persona umana. A questo punto
reclamò il suo potere anche la dea Terra da cui quell’essere era stato
tratto. I tre ricorsero a Saturno, il dio giudice che emise questa
sentenza: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte
riceverai lo spirito. Tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il
corpo. Ma finché la creatura umana vivrà, sarà sotto la tutela e la
giurisdizione di Cura». Ecco perché la sostenibilità deve essere una
sorta di grande protettrice che veglia sull’umanità, sulla sua storia e
sulla sua evoluzione.
Questo articolo è la «lectio magistralis»
che il cardinal Ravasi terrà venerdì 8 aprile all’Università Cattolica
di Rio de Janeiro in occasione del «Cortile dell’incontro».