Il Sole 3.4.16
Parole e verità
La ragione, la poesia e l’amore divino
La
fiducia illimitata nella potenza della ragione e della parola che
l’esprime è un tratto della mentalità illuministica della modernità.
di Bruno Forte
arcivescovo di Chieti-Vasto
È
uscito in questi giorni il volume di Bruno Forte, “Il libro del
viandante e dell’amore divino. Opera poetica”, edito dall’Editrice
Morcelliana di Brescia (216 pagine € 20). L’autore anticipa per i nostri
lettori alcune riflessioni da lui proposte nel saggio, compreso nel
volume, dal titolo “Oltre il declino della parola: teologia e poesia”.
Al
culmine dell’esercizio del pensiero, superati gli oscurantismi del
passato, la luce della ragione avrebbe realizzato il suo trionfo nella
perfetta corrispondenza dell’ideale e del reale. “Così, - scrive Hegel
in una celebre pagina della Scienza della Logica - dissipate le tenebre,
rimossa l’incolore cura di sé dello spirito rivolto a se stesso,
l’esistenza parve essersi trasformata nel sereno mondo dei fiori, tra i
quali, com’è noto, nessuno è nero” (Tomo I, Bari 1981, 4: traduzione
modificata) . Dove tutto è portato alla chiarezza dell’idea, ogni
presunto “fiore nero” dell’eccesso del reale rispetto al razionale è
ricondotto alla misura dell’idea e la parola - manifestazione compiuta
della razionalità - assurge a uno sconfinato potere, ad un irresistibile
fascino: nasce così - nel segno di Hegel e della sua multiforme eredità
- il marcato “logocentrismo” della modernità. Perciò l’ideologia
moderna - in tutte le sue forme - si ubriacherà di parole e la parola,
da strumento di sovversione e di cambiamento (“parole come pietre” al
servizio della trasformazione rivoluzionaria, di destra o di sinistra),
si andrà trasformando in mezzo di imbonimento e di inganno per
nascondere il dissidio fra ideale e reale. Di questo declino della
parola è dimostrazione la retorica di tutti i totalitarismi prodotti
dalla modernità. Non sorprende allora che il fallimento storico delle
pretese totalizzanti della ragione abbia fatto riemergere la rilevanza
di ciò che eccede la formulazione logica e verbale, quel “fiore nero”,
che non dovrebbe esserci per la ragione totalizzante e che invece c’è:
l’irrazionale, il notturno, il vitale inesprimibile, la morte.
L’affacciarsi del “fiore nero” nel tramonto delle “grandi narrazioni”
ideologiche si coniuga perciò a un nuovo bisogno di silenzio, spazio
aperto per l’invocazione e l’incontro con l’altro nell’ascolto.
La
crisi del “logocentrismo” della modernità, caratteristica dell’inquieto
post-moderno, viene a sfidare anche la tradizione ebraico-cristiana,
marcata com’essa è dalla parola quale via privilegiata
dell’auto-comunicazione divina: non è difficile cogliere come si tratti
di una sfida tutt’altro che indifferente. Come parlare del Verbo in un
tempo stanco di parole, malato del loro sciupio nella comunicazione
insignificante? come dire la Parola a una cultura segnata dall’abbandono
delle certezze forti legate al “logos”, condannata - almeno in
apparenza - alla rinuncia a ogni forza del dire, per risolvere la
comunicazione in puro gioco di maschere e di convenzioni, che nascondono
la solitudine dei frammenti e l’arcipelago delle disgregazioni?
Rispondere a queste domande in maniera responsabile significa farsi
carico con nuova coscienza di un dato tanto originario, quanto
paradossale: e cioè che proprio la religione della Parola sia, nel suo
principio e fondamento, “appesa” al Silenzio… Perciò, dire Dio è per la
fede biblica compito al tempo stesso impossibile e necessario:
impossibile per l’eccedenza dell’Oggetto; necessario per la sua
indispensabile rilevanza in ordine al senso e alla speranza della vita
degli uomini. La parola teologica, nel suo esercizio più alto, sta
allora sulla frontiera, continuamente rinviando da una parte alla
fragile terra dove poggiano i nostri piedi, e dall’altra all’abisso
insondabile, che è la regione del Silenzio. Due movimenti
l'attraversano, fra di loro totalmente asimmetrici: quello del
pellegrino, cercatore del senso, assetato di una patria, su cui radicare
il cammino e combattere la lotta con la morte; e quello, senza il quale
neanche l’altro esisterebbe, dell’Origine, inizio, presupposto e
fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi nella Parola
incarnata, muovendo dal Suo insondabile Silenzio...
Questo
itinerario conduce verso gli spazi della “poesia”: come la teologia, la
poesia educa ad ascoltare il Silenzio nelle parole e a far risuonare al
di là di esse l’abissale Silenzio in chi ascolta. La poesia realizza
anzi in maniera singolare la verità che sta al centro della teologia:
quella contenuta nell’evento della morte e resurrezione della Parola
venuta dall’eterno Silenzio di Dio. La parola della Croce dichiara certo
l’incompiutezza di ogni parola umana, se - per dirsi nella maniera più
profonda - il Verbo ha scelto la morte di Croce: è in questa morte,
però, che il Verbo tocca l’eloquenza più alta della Sua rivelazione.
“Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici” (Gv
15,13)! Morte della morte della parola è, analogamente, la poesia:
consapevole o inconsapevole, essa, quando è, è questa trasgressione,
questo morire della parola, perché la dimensione della Trascendenza
venga ad affacciarsi in questa morte e da essa si sprigioni. La poesia -
al di là della stessa consapevolezza del poeta - è evento di una
“kenosi” della parola, che ne trasmette il misterioso splendore...
Oltre
il declino del senso della parola nella comunicazione verbale si
offrono allora come possibile medicina dell'anima - pur nella diversità
del loro statuto epistemologico - tanto la teologia, quanto la poesia,
entrambe in ascolto del silenzio, entrambe testimoni di esso nella
ineliminabile fragilità della parola, entrambe eco di un’altra Parola,
di un altro Silenzio. Forse perciò entrambe sono circondate da
quell’aura di sospensione, quando non di sospetto, di cui rende ragione
la costatazione realistica e amara di Martin Heidegger: “Può darsi che
il linguaggio richieda, invece di un’espressione precipitosa, un giusto
silenzio. Tuttavia chi di noi uomini d’oggi può immaginare che i suoi
tentativi di pensare si trovino a proprio agio sul sentiero del
silenzio?” (Lettera sull’umanismo, Torino 1975, 110). Eppure, è sulla
via dell'ascolto, è sui sentieri del Silenzio, che la Parola può
nuovamente venirci incontro nel tempo della notte del mondo come evento
che libera e salva: “Perché i poeti nel tempo della povertà?... Esser
poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispirarsi alla
traccia degli Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della notte del mondo
il poeta canta il Sacro” (M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri
interrotti, Firenze 1984, 249s)... Voce poetica e voce teologica si
rivelano entrambe evocative dell’indicibile Altrove, capaci di
suscitarne la nostalgia e di farne pregustare l’inquietante, mortale,
vivissima bellezza. Lo mostra, ad esempio, questa lirica di Renzo
Barsacchi: “Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi
trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero
vivo. / Non credevo, Signore, / tanto profondo fosse / questo sfiorarsi
d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di
uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così
acceso / di impensate bellezze” (Le notti di Nicodemo, Palermo 1991,
11).