Il Sole Domenica 3.4.16
I discendenti della Sfinge
Così enigmi e altre forme di arguzia, diletto, indovinelli, trucchi e giochi di parole hanno attraversato l’antichità
di Carlo Carena
L’enigma
più famoso e perfetto dell’antichità appare all’alba non solo della sua
storia ma del mito. I suoi protagonisti si trovano già nelle opere di
Omero e di Esiodo, e la scena del loro incontro è raffigurata su
un’altrettanto famosa coppa attica del V secolo: un uomo sta seduto in
abbigliamento di viandante, cappello a larghe tese, calzari e bastone,
di fronte a uno strano uccello ritto sul capitello di una colonna, con
testa e petto di donna, ali e corpo di animale. L’uomo, Edipo, è salito
sul monte della Beozia ove risiede la Sfinge, che perseguita i Tebani,
per sciogliere l’enigma che essa propone, formulato così nel libro degli
Epigrammi e indovinelli, il XIV dell’Antologia Palatina: «Sulla terra
c’è un essere che ha due piedi, e quattro, e tre, e possiede una sola
voce». È l’uomo, risponderà Edipo: egli si muove da piccolo reggendosi
sulle gambe e sulla braccia, e da vecchio sostenendosi su un bastone. La
Sfinge sconfitta si precipita su una roccia e muore. I Tebani sono
liberi, il veggente diverrà loro re, ma avrà anch’egli una tale sorte,
per cui un giorno preferirà al vivere il non essere mai nato (è che
l’uomo, come dirà Pascal, è egli stesso una chimera a se stesso).
Anche
l’intrigante volume di Simone Beta, docente di Filologia classica
all’Università di Siena, dedicato al Labirinto della parola, parte dalla
Sfinge per scendere fino all’età romana diramandosi in successivi
capitoli in ogni forma e struttura enigmatica; proponendone una rassegna
e spiegandone i meccanismi, citando testi, autori, usanze; mostrando la
loro influenza nei destini di uomini grandi e piccoli o di interi
popoli, districandosi e districandoci nei meandri di una letteratura
affascinante ma evidentemente anch’essa di non facile adito.
La
sapienza stessa dei primi popoli fu espressa enigmaticamente. Pitagora,
Eraclito la racchiudevano in detti che devono il loro fascino all’essere
allusivi, misteriosi. Aristotele nella Poetica studia gli strumenti
linguistici e le costruzioni degli enigmi, pur dopo la premessa che «il
maggior pregio dello stile consiste nell’essere chiaro»; ma proprio la
costruzione arguta dell’enigma gli conferisce quell’altro pregio
essenziale allo stile, che è il «non essere umile». Platone non lo
ammette nella filosofia, perché è un esempio di ambiguità, adatto se mai
agli indovinelli che si propongono e ai calembours che si fanno per
divertimento durante i banchetti, reperibili nelle mille pagine dei
Sapienti a tavola di Ateneo e nel breve, delizioso Banchetto dei Sette
Sapienti di Plutarco.
Oggi, spiegava l’aristotelico Clearco, ci
proponiamo l’un l’altro a tavola il quesito di quale sia il pesce più
saporito in quella stagione e altri simili; ai bei tempi invece, un
commensale recitava un verso e gli altri dovevano proseguire a turno,
come avevano fatto Omero ed Esiodo quando s’incontrarono a Calcide;
oppure si iniziava col citare il nome di uno dei capi dei Greci nella
guerra di Troia, e si doveva via via citare gli altri, in una gara «che
rivelava il livello di cultura di ciascuno, poiché comportava l’uso
della testa».
Uso richiesto anche dopo, quando, complice Bacco, ci
si abbandonava all’osceno o al volgare. Come in questo enigma di una
commedia attica del V-IV secolo, su un organo umano che lasciamo trovare
al lettore: «Parla pur non avendo la lingua, può essere sia peloso che
liscio, è guardiano di molti venti...».
E ancora su altri giochi
s’intrattiene il trattato di Simone Beta. Passa all’anagramma e ne
indica l’inventore, il poeta ellenistico Licofrone, che in omaggio alla
regina d’Egitto Arsinoe ne scompose il nome in ion Eras, La viola di
Era.
E i sogni, che, come si sa, possono contenere anch’essi un
messaggio criptico; per cui li sollecitavano gli ammalati recandosi a
dormire presso i santuari consacrati ad Asclepio dio della medicina.
E
gli oracoli, che coprono la seconda parte del volume, non meno
importanti nella storia che fiammeggianti nel mito. Come li definiva
Eraclito, appunto, «il signore che ha il suo scranno profetico a Delfi
non dice e non nasconde, ma indica attraverso segni». Lassù, sul monte
della Focide, salì ancora Laio, padre di Edipo, e saprà che verrà ucciso
da suo figlio: come infatti avvenne, nonostante le sue precauzioni. Ma
anche Creso, re di Lidia, nel VI secolo, come narra Erodoto, dopo avere
selezionato i sette oracoli più famosi del mondo ne fece un check-up e
scoprì che il più veritiero era quello di Delfi e ad esso si affidò per
conoscere come gli sarebbe andata se avesse attaccato la Persia. Seppe
che «avrebbe distrutto un grande impero», e così fu: persa la battaglia,
distrusse il proprio. Né diversamente avverrà a Pirro quando chiese
alla Pizia se avrebbe vinto i Romani: «Ti dico te poter vincere Roma».
L’ultimo
a chiedere e a credere sarà Giuliano l’Apostata. Nel 362
quell’imperatore mandò un messo a Delfi, dove campavano a mala pena la
sacerdotessa e due sacerdoti; e la Pizia per l’ultima volta rispose:
«Annuncia al re che la bella dimora è crollata, l’alloro sacro è
appassito e le fonti tacciono per sempre».
Spenti gli oracoli,
tutte le altre forme di arguzia e di diletto, indovinelli, enigmi,
trucchi e giochetti avranno invece una vita rigogliosa ancora nel
Medioevo, trasferiti dalla vita nella letteratura da colti e sottili
ecclesiastici non meno che da comici burloni.
Simone Beta, Il labirinto della parola , Saggi Einaudi, Torino,pagg. XII-348, € 32