Il Sole Domenica 3.4.16
Imre Kertész (1929-2016)
Aveva nostalgia del lager
di Boris Pahor
Ciò
che mi colpì di più in Essere senza destino (Feltrinelli, 1999) di Imre
Kertész fu la confessione della nostalgia per il campo di
concentramento. Un sentimento che capisco e che avevo intuito quando ero
andato a visitare Natzweiler-Struthof, dove fui internato, dieci anni
dopo la fine della guerra e, una seconda volta, vent’anni dopo il
conflitto. Fu allora che mi venne l’idea di scrivere Necropoli (Fazi,
2008). Io non provavo nostalgia del lager, sarebbe stato il colmo! Ma
sentivo il bisogno di ritornarvi per assicurarmi che quello che avevo
vissuto fosse vero, che c’era ancora il palo della tensione su cui
impiccavano la gente, che c’era la stufa per alimentare il forno dove
bruciavano i prigionieri e le cui ceneri finivano nel buco assieme ai
liquami dei gabinetti, ossa humiliata. Capisco la sua nostalgia: perché
una società come la nostra non merita di prosperare; come sosteneva
Umberto Eco, una società così dovrebbe autodistruggersi.
Ho saputo
della morte di Kertész dal notiziario della radio slovena e sono stato
sopraffatto dal dispiacere di non aver avuto occasione di rivederlo dopo
l’incontro (registrato nel documentario La memoria ostinata di Tomaž
Burlin, anche sceneggiatore assieme a Neva Zajc, Tv Capodistria, 2009 ,
n.d.r.) che facemmo assieme al teatro dell’Odeon di Parigi il 17 gennaio
del 2009. Eravamo ospiti alla Maison des ecrivains del Tour de France
degli scrittori stranieri tradotti in francese. Ci incontrammo nel
camerino e ci abbracciammo, ci demmo spontaneamente del tu, lui sapeva
della mia Necropoli. Eravamo stati destinati in campi di lavoro vicini,
lui a Buchenwald, io in una sua dipendenza. Buchenwald, che era stato
pensato per prigionieri politici, era molto ben organizzato, perché
inizialmente avrebbe dovuto ospitare solo detenuti tedeschi socialisti e
comunisti. Kertész vi era arrivato, nonostante fosse ebreo e quindi
destinato a essere eliminato, per via della sua corporatura robusta: i
nazisti invece di mandarlo a morte nei forni lo avevano ritenuto idoneo
al lavoro.
Nell’incontro a Parigi abbiamo parlato delle
sofferenze, dei colpi che ci infliggevano i kapò, delle nostre malattie e
del dover lavorare nonostante la malattia, fino a che non cadevamo a
terra prostrati. Parlammo di quando ci facevano salire su uno sgabellino
con una camicetta che penzolava fino all’ombelico e controllavano il
nostro pene rasato per vedere che non si annidassero i pidocchi. A
subire questa umiliazione c’erano uomini anche di settant’anni. Ci
sarebbe voluta una macchina da presa per registrare tutto, solo quella
avrebbe reso davvero l’orrore. Kertész e io in letteratura abbiamo
cercato di raccontarlo con il nostro stile realistico, senza fronzoli:
una poesia del male. Quando parlammo all’Odeon, invece, eravamo
impacciati da una pessima traduzione dall’ungherese: l’interprete
rendeva male i pensieri di Kertész e lui ne era imbarazzato. Così i
momenti più belli furono prima e dopo l’incontro, quando eravamo soli e
ci esprimevamo nel nostro francese.
Quando ho saputo della sua
morte non ho potuto fare a meno di ricordare lo scrittore Stéphane
Hessel, mancato nel 2013. Con Hessel avevamo in comune l’esperienza del
campo di Dora, dove si costruivano i missili V2, ma ci incontrammo
solamente in Slovenia una decina di anni fa. Proprio come Kertész
entrambi constatammo che la società di oggi non è degna dei morti dei
lager. Hessel scrisse anche un libro, dal titolo Indignatevi! (Add
editore, 2011), per scuotere la gente. Una società che non si interessa
più dei morti nei campi di concentramento non è solo egoista ma
schifosa. Lo dirò al parlamento europeo dove sono invitato a parlare il
prossimo maggio. Capisco perché Kertész sentisse nostalgia del campo di
concentramento.
*Testo raccolto da Cristina Battocletti