Corriere La Lettura 3.4.16
L’ultima notte di un matematico
Fabrizio Falco porta in scena un monologo di Paolo Giordano dedicato a Évariste Galois, morto in duello a vent’anni nel 1832
di Laura Zangarini
«Non
ho più tempo». Sono le ultime parole che Évariste Galois scrive con
l’inchiostro nero come la notte che ha trascorso riempiendo pagine e
pagine con numeri, formule matematiche, simboli algebrici. All’alba
dovrà battersi a duello. Sa che non ha scampo: «Sono stato provocato da
due patrioti... era impossibile rifiutare. Muoio per colpa di un’infame
civetta».
La fine prematura del matematico nato il 25 ottobre 1811
a Bourg-la-Reine è solo l’ultimo atto di una vita infelice, segnata
dalle persecuzioni politiche, dalle incomprensioni del mondo accademico e
dal suicidio del padre. Fervente repubblicano, per ben due volte
finisce in carcere. A causa della sua militanza politica viene espulso
dalla Scuola Normale, dove si sta preparando alla professione
d’insegnante. Ciononostante non smette di dedicarsi ai suoi studi sulle
equazioni algebriche, che prosegue con perseveranza irriducibile, pur
non riuscendo mai a ottenere, dall’università, alcun riconoscimento dei
propri meriti. La delusione per essere stato respinto, per ben due
volte, all’esame di ammissione alla prestigiosa École Polytechnique di
Parigi non lo abbandonerà mai. I suoi manoscritti, inviati all’Accademia
per la pubblicazione e passati per le mani dei progessori-giudici
Cauchy, Fourier e Poisson, vanno in parte perduti e in parte respinti
perché considerati incompleti o illeggibili.
Nemmeno in amore
Évariste ha fortuna: si innamora della giovane figlia di un medico,
Stéphanie, già fidanzata con un gentiluomo: Pescheux d’Herbinville. Che,
scoperta la relazione, lo sfida a duello. Galois, che ben conosce la
reputazione del rivale, considerato una delle migliori pistole di
Francia, il 29 maggio 1832, la sera precedente la sfida, sapendo di
andare incontro alla morte, scrive alcune lettere ai suoi amici per
spiegare le circostanze in cui si è venuto a trovare. Trascorre la notte
a fare calcoli, a sviluppare le sue teorie. A scrivere, numeri, numeri,
ancora numeri. Poi verga una lettera di accompagnamento — considerata
il suo testamento — che indirizza all’amico Auguste Chevalier. Lo prega,
in caso di sua morte, «di mostrare le carte a Jacobi o a Gauss, perché
esprimano un parere non sulla verità, ma sull’importanza dei miei
teoremi».
Proprio a partire dalle lettere scritte dal giovane
Èvariste, lo scrittore Paolo Giordano ( La solitudine dei numeri primi )
ne ripercorre la vita tumultuosa in Galois , che l’attore e regista
Fabrizio Falco porta in scena al Teatro Gobetti di Torino dal 5 al 17
aprile. La vita del giovane matematico è stata già messa in scena nel
1967 al Teatro Eliseo di Roma (con Tomas Milian nel ruolo di Èvariste e
la regia di Ruggero Jacobbi) grazie all’attore e regista Franco Molè
(1939-2006), che ha scritto, nel 1964, Evaristo .
«Galois fa parte
del pantheon di quei geni assoluti con vite da “gioventù bruciata” che
spesso ispirano chi intraprende studi scientifici — osserva Giordano —.
Volevo approfondire meglio la conoscenza di questo genio solitario e
ribelle, la cui vita viene spezzata a vent’anni. La sua biografia è per
me speciale. Alla base della fisica moderna delle particelle, che era il
mio campo quando mi occupavo di fisica, c’è la teoria dei gruppi da lui
formulata». Le missive che il matematico scrive la notte prima di
morire, continua il romanziere, «sono piene di fervore, ma suscitano
anche tenerezza. Un destino avverso lo perseguita, i suoi studi non
vengono presi in considerazione. Tuttavia egli conserva una fede
incrollabile nelle proprie intuizioni».
Racconta Fabrizio Falco
che a colpirlo, di Galois, è stata soprattutto la militanza politica.
«Non era solo un genio della matematica, ma una persona che si muoveva
con totale consapevolezza nel contesto storico in cui viveva, il periodo
post Rivoluzione francese. Sposò le idee repubblicane del padre,
radicalizzandole come solo il bruciante ardore della gioventù sa fare.
Quel disperato “Non ho più tempo” annotato sulla lettera indirizzata a
Chevalier svela più di quel che dice sul rapporto tra Èvariste e le sue
passioni: sicuro di sé, ai limiti dell’arroganza con la matematica;
ardimentoso con la politica; pieno di tenerezza nei confronti
dell’amore, che affronta con l’ingenuità di un fanciullo. Una naïveté
che gli costerà la vita».
Alcuni storici sostengono che la sfida
fosse stata organizzata proprio per eliminare un personaggio scomodo.
Che quello di Galois sia stato insomma un delitto politico e non
d’onore. «È una tesi, potrebbe essere valida come no, del resto la vita
di questo genio ribelle è avvolta dal mistero — considera Falco —. È
anche per ciò che la messa in scena che ho allestito più che un luogo
fisico assomiglia a una “stanza” della mente, dove l’amico Chevalier
(interpretato da Francesco Marino), al quale Galois si rivolge
continuamente, appare a intermittenza, quasi fosse un sogno, un
fantasma». Cosa vedrà il pubblico in sala? «Un allestimento minimale, ho
usato il testo come una cartina geografica su cui orientarmi rispetto
alla scena, ai costumi, alle luci, seguendone le indicazioni e le mie
intuizioni. Ho pensato alla stanza in cui si muove Galois come a un
ampliamento della lettera scritta la notte prima di morire; il pavimento
è un foglio di carta su cui affiorano scritte, parole, numeri. Uno
spazio simbolico oltreché concreto, che mi ha dato più possibilità di
giocare col testo». Oltre che un luogo della mente, il palco diventa un
luogo dell’anima grazie al musicista Angelo Vitaliano. Che, complice
nascosto di Falco, intreccia dal vivo una drammaturgia sonora, in duetto
con il monologo. «Ho una squadra con cui collaboro da tempo — spiega
Falco —, Angelo ha composto le musiche del mio precedente spettacolo,
Partitura P - Uno studio su Pirandello . Con me anche Daniele Ciprì (che
nel 2012 ha diretto Falco al fianco di Toni Servillo in È stato il
figlio , ndr), direttore delle luci; e Maurizio Spicuzza, il mio aiuto
regista».
L’anno prossimo Falco sarà nella ripresa di Lehman
Trilogy di Luca Ronconi. Come lo ricorda? «Mi legano a lui tanti
momenti, non saprei e non so quale scegliere. Quando lavoravo con lui
sapevo di farlo con qualcuno che mi conosceva bene, di cui avevo
fiducia. Mi ha insegnato tanto, e soprattutto mi ha fatto capire quanto
può essere divertente giocare con il teatro, plasmando il testo,
manipolandolo, ma rispettando quello che suggerisce, senza tradirne
l’essenza».