Il Sole Domenica 17.4.16
Cina in Africa, falso mito duro a morire
di Gianfranco Bangone
Nell’agosto
 del 2012 l’economista capo della Banca di sviluppo africano scrive che 
la Cina è il più forte accaparratore di terreni agricoli del pianeta. La
 tesi si fonda sul fatto che tra il 2007 e il 2008 c’è stato un 
repentino aumento dei prezzi delle commodities e che la Cina finanziava 
una serie di programmi di sviluppo agricolo in Africa. Probabilmente 
nasce così l’idea che la Cina stesse acquistando a man bassa terre 
coltivabili nel continente nero con l’intenzione di trasferirci milioni 
di contadini dalle sue province. È probabile che questa tesi fosse 
sorretta da un pregiudizio duro a morire: negli anni ’80 il 70% della 
popolazione cinese è impiegata in agricoltura, ma produce solo il 30% 
del Pil. I cinesi sono destinati alla fame? Nel 1995 viene pubblicato un
 saggio di Lester Brown, dal titolo Who will feed China ?. Sono anni in 
cui l’approccio maltusiano alle risorse ha una circolazione planetaria e
 infatti sulla politica di espansione cinese in Africa compaiono 
centinaia di articoli. Pechino avrebbe acquistato milioni di ettari in 
Congo, Zambia, Zimbabwe, Uganda, Tanzania e Mozambico. Ma a sbarcare in 
questi Paesi, semmai, sono le aziende private europee e sud-africane che
 in soli cinque anni – tra il 2004 e il 2009 – si accaparrano, e 
stavolta per davvero, un milione di ettari. A confondere le acque è, 
probabilmente, nella fase di decolonizzazione, una miriade di 
micro-progetti cinesi in molti paesi africani. Si tratta di un 
esperimento non andato a buon fine anche perché, come diceva Norman 
Borlaugh, per uscire dall’agricoltura di sussistenza «servono strade, 
strade e ancora strade». E in Africa il 50% della popolazione rurale non
 è servita da vie praticabili in ogni stagione, quindi c’è una penuria 
storica di infrastrutture.
Semmai, come racconta questo saggio di 
Debora Brautigham, della John Hopkins University, è la Cina ad 
accogliere in casa investitori stranieri. Infatti sono i colossi 
dell’agroalimentare ad approfittare di favorevoli condizioni economiche 
per investire in questo Paese: oggi cinque aziende occidentali, fra la 
cui la Cargill del Minnesota, producono il 60% della soia cinese. 
Un’azienda thailandese è il più grosso produttore di mangime animale e 
fra le industrie sementiere ci sono la DuPont e la Monsanto.
In 
Africa, invece, gli Usa diventano il più grosso investitore nella 
produzione agricola seguiti dagli Emirati Arabi, dall’Arabia Saudita, 
dalla Gran Bretagna e dall’India. Pechino nel frattempo ha compiuto 
enormi balzi avanti, ma nei suoi confini nazionali: negli anni ’80 
disponeva solo di 77 trattori per 100 km quadrati, rispetto ai 3.019 del
 Giappone e ai 33 dell’Africa nera. L’apertura al mercato e la rapida 
industrializzazione cinese hanno fatto scendere nel 2011 la percentuale 
di manodopera utilizzata in agricoltura al 35% e la produzione è 
cresciuta di un 5% medio annuo per diversi decenni.
Il libro di 
Debora Brautigham dimostra con dati alla mano che Pechino esporta in 
Africa molte più derrate alimentari di quante ne importi, ma 
ricostruisce con grande dettaglio la genesi di questa leggenda 
metropolitana che ha colonizzato molti media occidentali. I dati del 
2014 dimostrano che le aziende cinesi in Africa coltivano solo 240mila 
ettari (più o meno la superficie di una metropoli occidentale di medie 
proporzioni).
Debora Brautigham, Will Africa Feed China? Oxford University Press, pagg. 248, £ 18,99
 
